Hai appena iniziato un percorso interessante e complesso, ma… Sei stato per diversi anni un infermiere. Come e quando hai scelto di diventare un professionista dell’assistenza?
«Ho lavorato come infermiere per 15 anni. Anzi, direi 18 tra tirocinio formativo e attività collegate. La mia scelta di diventarlo è arrivata per caso e per necessità. Parliamo di 25 anni fa e tra diverse esperienze fatte per ricercare me stesso, pensai: “diventando infermiere lavorerei subito, girerei l’Italia e magari il mondo, diventerei un professionista riconosciuto”.
Iniziai così questo percorso di studi, che già dalle prime lezioni da parte dei docenti infermieri mi deluse un po’: ogni volta sembrava di stare ad una sorta di congresso di scienze dell’assertività. Le uniche lezioni di un certo livello erano tenute da altri professori (medici, mi duole dirlo), ma forse era solo una mia impressione.
Il corso di laurea non era difficile, ma gli anni per frequentarlo furono impegnativi: lavoravo di fatto gratis (il tirocinio), studiavo e dovevo comunque guadagnare qualche soldo per sbarcare il lunario».
Una volta laureato ti sei catapultato nel mondo del lavoro come “professionista”. Raccontaci in breve del tuo percorso e delle tue esperienze.
«Appena laureato ottenni subito un contratto con un ospedale romano, al tempo in piena e continua espansione quasi come l’universo. Da subito notai che l’offerta lavorativa data dai datori di lavoro, appartenenti agli “ospedaloni” pubblici e dalle “clinichette” private, era molto datato.
Trattavasi di “posto fisso” e basta. Nessun riferimento alla carriera o a delle specializzazioni con dedicati risvolti; tutto mi sembrava molto piatto e poco in linea con l’idea di “professione” che avevo e che ho tuttora. Così cercai sin da subito di interpretare il mio essere infermiere in modo trasversale, cogliendo tutte le possibilità e i risvolti che mi si presentavano.
Cambiare aria alla ricerca di qualcosa di diverso era l’unica soluzione. Era una cosa che facevano in pochi all’epoca, almeno in questo lavoro o meglio “ruolo”. Ma un nuovo posto corrispondeva a nuove possibilità, molto di più degli eventuali corsi di formazione offerti dalle varie università e dai primi “e-learning” italiani.
Ne ho cambiati davvero tanti, di ospedali e reparti. Da pubblici a privati, da residenze sanitarie assistite a terapie intensive post-trapianto, che posso dire sono tra quelle a più alta intensità di cura e assistenza.
Ma quello dell’infermiere seguitava ad apparirmi solo come un ruolo stabile, sì, ma immodificabile. Non si cresceva. Non si evolveva. A quel punto scelsi la libera professione (2012) e mi tolsi qualche soddisfazione. Ad esempio mi occupai di medicina occupazionale in ambito territoriale, godendo di un ruolo diverso, con diversa contrattualità e nuove attività.
In quel momento viaggiai anche tanto, apprezzando una cultura del lavoro diversa coi suoi pregi e i suoi difetti. Ma di nuovo, amaramente, mi resi conto che le progressioni di carriera non esistevano. E alla fine, dopo due anni, facendo i conti, mi accorsi che non guadagnavo affatto di più, che avevo meno garanzie/indennità, che non avevo ferie e malattie pagate.
Decisi perciò di tornare al pubblico e ci riuscii, grazie ai concorsi vinti. Ma tra contratti fascia D zero (che, ne ero sicuro, sarebbero stati D zero fino alla fine dei tempi), trimestrali e semestrali (spesso non rinnovabili, ma che venivano costantemente rinnovati), ero a dir poco insoddisfatto».
E hai deciso di emigrare in UK…
«Già. Nel periodo di permanenza in UK ho apprezzato non poco l’ambiente lavorativo estremamente positivo e ho scoperto il mondo della ricerca applicata, un mondo a cui mi sono appassionato subito e che è basilare ed apicale nelle sanità di tutto il mondo».
Sei poi tornato in Italia, ma l’esperienza all’ombra del Big Ben ti ha cambiato.
«Terminato quello che era il mio progetto, sono tornato e dopo poco, tramite website specifici (uno in particolare) ho fatto applications e diffuso il mio CV ben curato nei minimi dettagli, con referenze dai line managers inglesi. Sono stato contattato quasi subito da diverse aziende. I contratti erano un po’ diversi, ma sempre freelance o a prestazione occasionale, perché il workload o carico di lavoro in quell’ambito è concettualmente diverso, pianificato e distribuito nel tempo.
Per farla breve, grazie a tutto ciò ho fatto un mio network di attività come side job, ovvero lavori secondari che mi hanno portato a scoprire un oceano di opportunità, ruoli e carriera professionale. Nel frattempo, ho continuato a stare nel pubblico. Intanto spendevo tanto in tempo e denaro per vari corsi universitari (e non)».
Avevi già deciso di mollare la professione infermieristica…?
«Dopo la laurea specialistica in scienze infermieristiche, ho ottenuto un master di secondo livello in ricerca clinica (ero l’unico infermiere). Al tempo stesso, con l’entrata in vigore la legge comunitaria 536/2014 CTR, è cambiato il vento sugli studi clinici in Italia e svariate società di recruiting si sono messe all’opera per ricercare personale qualificato.
Alla fine, dopo diversi contatti e lunghe video-calls rigorosamente in inglese (in cui dalla classica job interview si passa ad una profonda descrizione dei propri interessi e quello che non si è mai riusciti ad esprimere), sono stato scelto come coordinatore da un’importante società d’oltralpe per avviare una start up sui DCT (decentralized clinical trial). Ho deciso perciò di dimettermi dal pubblico, di abbracciare questa opportunità e ora sono un “clinical research coordinator” con inimmaginabili possibilità di carriera».
Quando è partita questa tua nuova avventura? Come ti trovi?
«Ho iniziato lo scorso 4 settembre, facendo visita al “quartier generale” della mia nuova azienda. È stata un’esperienza bellissima, sono stato accolto con cortesia e riguardo. In questa mia nuova vita professionale viaggerò tanto, frequentando sia la sede centrale (in Francia) che altre sedi sparse in tutta Europa. “Fully remote”, come si dice in questo ambito».
Sei un ex infermiere che ha ricominciato a sognare, quindi.
«I sogni continuano a crescere giorno dopo giorno, adesso vivo in un contesto completamente nuovo e basato sulla meritocrazia. Non può essere altrimenti».
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