Sradicare il tabù del missionario: come non essere un pungiball emotivo

Dario Tobruk 03/06/20
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È paradossale, ma nel nostro lavoro riteniamo normali comportamenti che in altri contesti non accetteremo mai, in nessun caso. Per questo è importante sradicare il tabù dell’infermiere missionario, non siamo i “pungiball” emotivi dei pazienti e dei loro parenti! Non siamo moralmente obbligati a subire le aggressioni degli utenti.

Sradicare il tabù dell’infermiere missionario

Piccole violenze quotidiane da parte dei parenti o dei nostri stessi assistiti vengono vissuti da infermieri e operatori sanitari come parte della propria normale quotidianità: aggressività, richieste inopportune, intimidazioni, accessi di rabbia, violenze fisiche e verbali sono all’ordine del giorno e vengono giustificate dalla situazione di sofferenza dei nostri pazienti. Il contatto perenne con la paura, la rabbia e tutte le emozioni che accompagnano la malattia tendono ad alzare pericolosamente la nostra asticella del ciò che è tollerabile, rendendoci immuni a tutte le avversità che ad altri rovinerebbero la settimana, come minimo.

Per fare questo lavoro “ci vogliono le spalle larghe“, ci ripetiamo, come un mantra autoconsolatorio. O il mio preferito: “Questo non è un lavoro ma una missione!

Le aggressioni non sono solo fisiche

E se non fosse normale? Hai mai considerato l’ipotesi di fare una battuta a sfondo sessuale (se donna) o razzista (se straniero o meridionale) ad un poliziotto, ad un funzionario dell’INPS, ad un postino, ad un qualunque lavoratore della Pubblica Amministrazione come spesso i parenti e gli stessi pazienti fanno abitualmente con noi infermieri? No, non lo faresti.

Eppure molti di noi infermieri hanno esperienza di freddure a cui rispondiamo con collaudati sorrisi di circostanza. Consideriamo normale ricevere richieste inopportune al limite dell’impertinenza – “signorina, mi cambi canale” o il classico campanello con la richiesta “infermiere, che ore sono?“, che vuoi che sia.

Per qualche strano motivo, in sanità e nello specifico nel lavoro infermieristico vengono considerati normali, comportamenti che altrove sarebbero ritenuti estremamente offensivi. Faremo una lista in cui ognuno di noi potrà ritrovarsi:

  • Qualcuno si è rivolto a te con un linguaggio volgare, irrispettoso, sarcastico o cinico.
  • Almeno una volta qualcuno ti ha chiamato con l’uso di un soprannome che solo in pochi considererebbero simpatici.
  • Allusioni e commenti a sfondo
    • sessuale se sei una donna,
    • discriminatorio se sei meridionale,
    • razzista se sei straniero.
  • Hai subito un contatto fisico inappropriato.
  • Hai risposto con gentilezza ad accessi di rabbia del tuo assistito o del parente.
  • Ti hanno lanciato oggetti o liquidi.
  • Critiche inconsistenti davanti i parenti.
  • Commenti con l’intento d’intaccare la tua professionalità.
  • Hai ricevuto minacce più o meno velate.

Come non essere un pungiball emotivo

Gli infermieri stessi, spesso, sono i primi complici di questo malcostume. Quante volte abbiamo avvertito che il comportamento dell’utente non era consono alla situazione ma abbiamo fatto un bel respiro, tirato il fiato e risoluti gestito il conflitto. Consideriamo questo modo di approcciare il problema come l’unico ed efficace ma il prezzo è spesso un sovraccarico emotivo che ci spinge verso forme nascoste di burnout.

L’aggressività dell’utente è comune

Per tutti i motivi che abbiamo sopra elencato, l’infermiere missionario considera abituale ricevere e sedare le emozioni negative degli utenti e non si pone il minimo dubbio che questo comportamento potrebbe non lasciare lo spazio a eventuale soluzioni alla portata di tutti. In ogni caso un’utenza abituata a mancare di rispetto ai lavoratori è un’utenza che senz’altro lo farà ad ogni occasione.

Soluzione: sradicare il tabù del “qualsiasi cosa per il bene del paziente”. Il rispetto dell’operatore non dovrà più essere negoziabile.

Rispondere è una perdita di tempo, essere gentili ad ogni costo.

Ricordiamo che essere gentili non vuol dire essere accondiscendenti e che un’aggressione verbale è comunque un’aggressione e non va mai tollerata. Non affrontare un paziente aggressivo, che è diverso da un paziente oppositivo o non compliante, con una comunicazione ferma, sicura e pacata, può far innescare un’escalation di violenza da verbale a fisica con maggiori probabilità.

Soluzione: accettare passivamente le aggressioni verbali dei parenti è un invito a continuare a farlo. Non farlo!

La qualità della comunicazione. Alla scoperta dell’anziano in difficoltà

La comunicazione è connaturata all’essere umano. Non si può non comunicare, recita il primo famosissimo assioma di Watzlawick. Siamo composti di comunicazione. Mente e cervello si formano e si caratterizzano in base alle esperienze, vale a dire alle relazioni che viviamo, ai contenuti e alle modalità comunicative che sviluppiamo. Spesso comunichiamo senza sapere effettivamente che cosa stiamo comunicando e come. Ma ciò che esprimiamo negli atteggiamenti, nei comportamenti, nelle parole e nei loro silenzi è il prodotto delle nostre idee, di ciò che pensia- mo di noi stessi, degli altri, dell’ambiente nel quale siamo inseriti e col quale interagiamo. Quale idea abbiamo della vecchiaia, della disabilità, della demenza? Ciò che realmente, profondamente pensiamo dell’età senile – e non solamente ciò che ammettiamo di pensare – influenza l’interazione con gli anziani, sani e malati, autosufficienti o disabili. Si può imparare a comunicare in un modo più appropriato con le persone anziane in difficoltà. È possibile riconoscere il proprio modo di comunicare, anche quello non verbale,  e predisporsi, se necessario, a modificarlo. Si possono apprendere il più correttamente possibile modalità relazionali e comunicative con le persone anziane che presentano problemi mentali e comportamentali, fronteggiare e proporsi in termini più consoni con chi esprime una sofferenza psichica. Una particolare attenzione viene posta sulla comunicazione non verbale, quale registro determinante per comprendere sempre più approfonditamente le espressioni del disagio e cogliere le modalità individuali di tali manifestazioni. Anche i silenzi devono essere ‘ascoltati’ e compresi. LE COLLANE DELL’AREA SOCIALE E SANITÀ > Lavoro di cura e di comunità > I libri di Edizioni Vega > L’infermiere e la sua professione > Esplorazioni > Economia Sociale > Diritto e Management in Sanità     

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Non è grave

La violenza sul posto di lavoro è stato uno dei problemi più gravi dei tempi pre-Covid, ma gli applausi dai balconi hanno coperto malamente il rumore delle minacce in tempo di pace. Il processo di cura è un contratto sociale tra le parti: io mi impegno a curarti nelle possibilità delle mie possibilità e nel pieno rispetto dei tuoi diritti e tu ti impegni a fare lo stesso.

Quindi quando tutto tornerà alla “normalità” sarà ora di decidere quale questa debba essere per noi. Denunciare all’azienda ogni singolo caso di aggressione e di minaccia sarà il punto di forza, la leva. La cosa che bisogna comprendere è che ricevere un’aggressione, di qualsiasi natura, durante il proprio lavoro, in un contesto così delicato come quello sanitario, non è più tollerabile e deve essere considerato per quello che é, un reato. 

Soluzione: denunciate e comunicate ogni singola aggressione ricevuta ad azienda e superiori, smuovete le acque!

Infermiere: professionista, non missionario

Riconsideriamo quindi tutte quelle strategie che consideravamo efficaci e che invece possono comportare un rischio ben maggiore o il solo semplice fatto che non sono accettabili e che non dovrebbero più fare parte della quotidianità del professionista per lasciarle definitivamente nel vecchio cassetto dell’infermiere missionario.

Altri articoli utili sull’argomento:

Fonti e approfondimenti:

  • Prevenire, riconoscere e disinnescare l’aggressività e la violenza contro gli operatori della salute, Massimo Picozzi, Corso ECM Fadinmed.it.

Dario Tobruk

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