Due sentenze a confronto. La prima che respinge il ricorso contro l’Inail di una infermiera strumentista di sala operatoria affetta da spondilo-discopatia perché “non rapportabile ad una denunciata continuativa e significativa movimentazione manuale di carichi”. E la seconda che, invece, accoglie quello di un’assistente alla poltrona con la stessa patologia in quanto ne riconosce “la natura professionale”. Tutto prodotto dal Tribunale di Roma Sezione Lavoro.
Lo strumentista e i disturbi muscolo scheletrici
Eh sì, essere un infermiere e lavorare in corsia è spesso molto faticoso a livello fisico. Vi è tanta strada da fare (in senso letterale) e a volte ci sono davvero troppi carichi da mobilizzare, soprattutto quando le aziende non permettono ai lavoratori di espletare le proprie funzioni in sicurezza grazie a DPI e ausili adeguati.
Fatto sta che a fine giornata la schiena di molti colleghi rischia di esplodere e che tutto ciò, a lungo andare, può tradursi in patologie discali accertate e debilitanti; che spesso sfociano in contenziosi più o meno agguerriti tra aziende e lavoratori.
Ma… Tra gli infermieri, chi non è in corsia corre gli stessi rischi? Probabilmente sì. Già, perché non sono solo movimenti eccessivi/maldestri e la movimentazione dei carichi a minacciare l’integrità muscolo scheletrica del lavoratore.
Basti pensare, ad esempio, all’immobilità protratta degli operatori sanitari che lavorano in sala operatoria, come l’infermiere strumentista.
Provate a stare in piedi, fermi, per più di 15 minuti e… Capirete cosa voglio dire. Gli infermieri di sala impegnati al tavolo operatorio sono infatti costretti a stare in posizione eretta, pressoché immobili o in posizioni assai poco ergonomiche, anche per 5, 6, 8 ore; tanto che, a fine procedura, per loro diventa dolorosissimo anche solo provare a sedersi o a flettere il busto in avanti.
Quasi come se le vertebre si siano momentaneamente saldate tra loro e non vi sia più possibilità, nell’immediato, di far tornare alla normalità i rapporti articolari che le tengono vicine. Algie lombari e cervicali sono perciò all’ordine del giorno, per non parlare di quelle articolari a carico di spalle e ginocchia.
La sentenza contro il ricorso di una infermiera
Eppure, secondo una recente sentenza (Tribunale di Roma, Sez. II Lavoro, Sentenza n. 3193/2021 pubbl. il 02/04/2021 RG n. 12299/2019), che ha rigettato il ricorso di una infermiera strumentista affetta da spondilodiscopatia della colonna lombosacrale (con sofferenza pre-gangliare delle ultime radici lombosacrali), il lavoro di sala non è affatto usurante. O meglio… Secondo le “prove” fornite dalla lavoratrice, non è affatto la causa della sua situazione patologica.
Ma partiamo dal principio. La sanitaria ha proposto una domanda finalizzata al riconoscimento del diritto all’indennizzo in capitale per invalidità permanente pari al 12% (o comunque non inferiore al 6%) derivante da malattia professionale, denunciata all’Inail in data 21/03/18.
A supporto della suddetta domanda, l’infermiera ha fornito la prova relativa all’oggetto, ai tempi ed alle modalità dell’attività lavorativa svolta fin dalla sua assunzione (dal 1989 al 1994 in terapia intensiva cardiochirurgica, dal 1993 al 2010 in sala operatoria e dal 2010 a oggi al SINT, servizio immuno-ematologia trasfusionale).
La ricorrente ha anche precisato che tutti i reparti dove ha prestato servizio erano “intensivi”, “di prima linea” e che nel reparto di terapia intensiva a quei tempi non vi erano nemmeno gli elevatori; di conseguenza, i pazienti non autonomi venivano sollevati e movimentati manualmente. Per di più, in cardiochirurgia, la donna si ritrovava a trasportare cestelli del peso di circa 10 Kg cadauno.
Eppure, come ha concluso nella sentenza il Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU), dalle schede riassuntive delle attività svolte presso l’Azienda Sanitaria allegate alla domanda “si evince che l’esposizione al rischio da sovraccarico biomeccanico del rachide sia stato classificato come Medio fino al 1994, Basso – Moderato fino al 2005 e Assente, dal 2006.
Non si ravvisa, pertanto, sia nell’ambito dell’attività di strumentista di camera operatoria che di infermiera presso il SINT che siano emersi elementi che consentono di ritenere che la Signora sia stata esposta a rischio MMC (movimentazione manuale dei carichi) idoneo a causare la patologia denunciata”.
Ma non solo, perché secondo tale consulenza, condivisa integralmente dal Giudice, “nel lungo periodo di attività quale infermiera c/o l’Ospedale è stata sottoposta annualmente a visita presso il medico competente che solo nel 2013 ha ritenuto di esonerarla dal sollevamento pesi di circa 5 Kg.
Successivamente è stata fatta idonea senza prescrizioni. La situazione attuale documenta strumentalmente e clinicamente una sofferenza radicolare cronica moderata a carico delle radici L5 -S1 compatibile con l’età e non rapportabile ad una denunciata continuativa e significativa movimentazione manuale di carichi.”
Altresì, nelle osservazioni critiche proposte all’elaborato peritale, il Consulente Tecnico di Parte ricorrente ha affermato che “il Documento di Valutazione dei Rischi narra che nell’anno di valutazione si è riscontrato per quella tipologia di mansione” un basso rischio lavorativo, “ovvero che la probabilità che accada il danno è bassa o inesistente per quei lavoratori che svolgono la mansione”.
Il ricorso dell’infermiera, quindi, è stato ritenuto infondato e rigettato. Tanto che ha dovuto pagare pure le spese legali.
La sentenza a favore dell’assistente alla poltrona
Trattasi di quella n° 1516/2020, sempre del Tribunale di Roma Sez. Lavoro (pubbl. il 14/02/2020, RG n. 34927/2018), che ha visto il riconoscimento dell’indennizzo Inail a una Assistente alla Poltrona (ASO) che, per anni, stando in piedi per molte ore continuative al giorno e adottando posture non ergonomiche per assistere l’odontoiatra, ha sviluppato problemi fisici alla schiena.
Anche in questo caso l’Inail, inizialmente, rifiutò il risarcimento perché “le malattie denunciate dalla ricorrente” non erano “di natura professionale”, “per la presunta mancanza di adeguata documentazione e per la non riconducibilità della patologia”; infine per “assenza del nesso causale.”
Trattavasi, per l’istituto di previdenza, di “malattie comuni, non tabellate, contratte in virtù di un rischio generico” e non di “un collegamento tra le queste e l’espletamento dell’attività assicurata”.
Eppure, in questo caso, dopo il ricorso dell’ASO presso il Tribunale di Roma, l’Inail ha perso la causa. Secondo quanto evidenziato dal CTU nella sentenza, infatti, “la natura professionale della spondilodiscoartrosi lombare ed artropatia alle spalle può essere affermata in relazione alla lunga esposizione per motivi di lavoro alle posture incongrue e protratte, alle prolungate stazioni erette, ai microtraumi ripetuti contemporaneamente, provocando una forma di discopatia lombare, artropatia alle spalle”.
Per ciò che concerne la valutazione del danno, il Giudice ha deciso che l’ASO “ha riportato postumi di invalidità permanente quantificabili nella misura complessiva del 7% a far tempo dalla domanda amministrativa” e perciò ha condannato l’Inail “a corrispondere alla stessa ricorrente la rendita l’indennizzo (danno biologico) corrispondente a tale inabilità, con gli interessi legali come per legge”.
Conclusioni
A meno che non vi siano state lacune madornali nella produzione della documentazione allegata come “prova” alla propria domanda (comunque, anche solo per il fatto di essere una strumentista di sala operatoria, a prescindere, dovrebbe valere anche per lei il discorso delle “posture incongrue e protratte”, delle “prolungate stazioni erette” e dei “microtraumi ripetuti contemporaneamente”) come abbia fatto l’infermiera a perdere la sua causa nello stesso Tribunale in cui l’assistente alla poltrona ha invece vinto un anno prima… Rimane un vero mistero.
Autore: Alessio Biondino
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