È stata appena depositata una sentenza della Suprema Corte di Cassazione (la n. 21521/2021) che fa riflettere, che genererà parecchie discussioni e che forse farà correre ai ripari diversi medici competenti e datori di lavoro ‘distratti’.
Partiamo dall’inizio. Un infermiere, intento a effettuare un prelievo ematico su una paziente affetta da HVC e HVB, si è accidentalmente punto a causa di un improvviso movimento di quest’ultima, infettandosi.
L’assenza di aghi cannula ‘protetti’
Per tale motivo, in Appello era stato condannato il medico competente giudicato responsabile del reato di cui all’art. 590 codice penale. Il motivo? Per i giudici di merito ciò si è verificato in quanto in uso all’infermiere vi era un ago cannula 18G Delta2, sprovvisto di dispositivo di sicurezza. Non c’erano aghi cannula protetti, quindi.
E l’imputato, in qualità di medico competente dell’ASL, aveva evidentemente omesso di collaborare adeguatamente con il datore di lavoro nella valutazione del rischio biologico.
Rischio che, per il personale sanitario in servizio presso l’UO di P.S., è evidentemente rappresentato anche dalla possibile contrazione di patologie infettive causate da punture o ferite causate da aghi e taglienti contaminati.
I presidi non ci sono? È comunque responsabilità del medico competente
Sempre in Appello, la Corte aveva escluso che l’indisponibilità dei suddetti dispositivi ‘protetti’ presso la farmacia dell’ospedale, lamentata dall’imputato, non potesse affatto tradursi con un alleggerimento delle sue responsabilità: è lui che avrebbe dovuto prevedere l’adozione e l’uso di tali presidi nel documento di valutazione dei rischi, alla cui stesura era stato chiamato a collaborare in qualità di medico competente.
Lamentarsi con la direzione sanitaria? Non basta
Il camice bianco aveva anche asserito di aver ripetutamente segnalato alla direzione sanitaria l’assenza di quei presidi suggeriti dall’evoluzione della tecnologia per proteggere gli operatori, ma… Sfortunatamente per lui, non è riuscito a produrre alcuna documentazione valida in tal senso.
E comunque, una sua eventuale segnalazione, corredata di specifiche indicazioni e valutazioni sulla pericolosità dell’uso dei dispositivi privi di protezione e la necessità di una loro sostituzione, con ogni probabilità avrebbe avuto come conseguenza l’esecuzione delle misure da lui indicate e l’approvvigionamento di quelle attrezzature.
Il ricorso respinto e la condanna
Nella speranza di ribaltare tutto, il professionista ha fatto ricorso in Cassazione eccependo di aver avvertito oralmente il datore di lavoro del suddetto rischio, che comunque era da considerare noto.
E che comunque il datore (assolto in secondo grado) è tenuto all’adempimento dei propri obblighi senza necessità di sollecitazioni esterne, cosa che per il medico rendeva la propria condanna quantomeno illogica.
Come riportato da Responsabilità Civile, la Suprema Corte ha però respinto il ricorso e ha condannato l’imputato, evidenziando che “il medico competente è titolare di una propria sfera di competenza; si tratta di un garante a titolo originario e non derivato”.
Ma non solo: gli Ermellini hanno anche spiegato che “l’obbligo di collaborazione con il datore di lavoro da parte del medico competente, il cui inadempimento integra il reato di cui agli artt. 25, comma primo, lett. a) e 58, comma primo, lett. c), del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, comporta un’effettiva integrazione nel contesto aziendale del sanitario, il quale non deve limitarsi ad un ruolo meramente passivo, ma deve dedicarsi ad un’attività propositiva e informativa in relazione al proprio ambito professionale”.
Autore: Alessio Biondino
Cassazione: il medico non può rifiutarsi di visitare il paziente se a chiamare è l’infermiere
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