Quanto vale la manifestazione di dissenso, avverso le trasfusioni, espresse mediante tatuaggi o bracciali?

Quanto vale la manifestazione di dissenso avverso le trasfusioni espresse mediante tatuaggi o bracciali?

Oggetto di dibattito giornalistico e non solo, per l’attualità della problematica e per il ritorno in termini di responsabilità penale, è la tematica inerente al c.d consenso informato. Spesso e volentieri sarà capitato anche a numerosi lettori del nostro sito di imbattersi in soggetti che, per credo religioso o altri motivi, manifestino con veemenza e chiarezza di non volersi sottoporre ad alcun trattamento sanitario che prevede trasfusioni di sangue. Molti di questi soggetti, portano al collo dei ciondoli dove manifestano tale volontà o, in altri casi, si fanno tatuare su parti ben visibili del corpo tale decisione.

Nessun problema sembra porsi per l’operatore sanitario che dovesse trovarsi di fronte un paziente lucido e in grado di prestare il proprio consenso nell’immediatezza del ricovero, diversa è invece la posizione del sanitario al quale non viene prestata nessuna manifestazione di dissenso o consenso a causa della impossibilità di esprimersi.

Come ci si pone d’innanzi alla situazione di un paziente che porta al collo un ciondolo dove manifesta la volontà di non sottoporsi a trasfusione o ha tatuata sul corpo la stessa decisione?

La validità di tali manifestazioni, in relazione anche allo stato di necessità, nel cui caso opera l’esimente di cui all’art 54 c.p., (non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo)  è molto discussa.

Professione infermiere: alle soglie del XXI secolo

La maggior parte dei libri di storia infermieristica si ferma alla prima metà del ventesimo secolo, trascurando di fatto situazioni, avvenimenti ed episodi accaduti in tempi a noi più vicini; si tratta di una lacuna da colmare perché proprio nel passaggio al nuovo millennio la professione infermieristica italiana ha vissuto una fase cruciale della sua evoluzione, documentata da un’intensa produzione normativa.  Infatti, l’evoluzione storica dell’infermieristica in Italia ha subìto un’improvvisa e importante accelerazione a partire dagli anni 90: il passaggio dell’istruzione all’università, l’approvazione del profilo professionale e l’abolizione del mansionario sono soltanto alcuni dei processi e degli avvenimenti che hanno rapidamente cambiato il volto della professione. Ma come si è arrivati a tali risultati? Gli autori sono convinti che per capire la storia non basta interpretare leggi e ordinamenti e per questa ragione hanno voluto esplorare le esperienze di coloro che hanno avuto un ruolo significativo per lo sviluppo della professione infermieristica nel periodo esaminato: rappresentanti di organismi istituzionali e di associazioni, formatori, studiosi di storia della professione, infermieri manager. Il filo conduttore del libro è lo sviluppo del processo di professionalizzazione dell’infermiere. Alcune domande importanti sono gli stessi autori a sollevarle nelle conclusioni. Tra queste, spicca il problema dell’autonomia professionale: essa è sancita sul terreno giuridico dalle norme emanate nel periodo considerato, ma in che misura e in quali forme si realizza nei luoghi di lavoro, nella pratica dei professionisti? E, inoltre, come si riflettono i cambiamenti, di cui gli infermieri sono stati protagonisti, sul sistema sanitario del Paese? Il libro testimonia che la professione è cambiata ed è cresciuta, ma che c’è ancora molto lavoro da fare. Coltivare questa crescita è una responsabilità delle nuove generazioni. Le voci del libro: Odilia D’Avella, Emma Carli, Annalisa Silvestro, Gennaro Roc- co, Stefania Gastaldi, Maria Grazia De Marinis, Paola Binetti, Rosaria Alvaro, Luisa Saiani, Paolo Chiari, Edoardo Manzoni, Paolo Carlo Motta, Duilio Fiorenzo Manara, Barbara Man- giacavalli, Cleopatra Ferri, Daniele Rodriguez, Giannantonio Barbieri, Patrizia Taddia, Teresa Petrangolini, Maria Santina Bonardi, Elio Drigo, Maria Gabriella De Togni, Carla Collicelli, Mario Schiavon, Roberta Mazzoni, Grazia Monti, Maristella Mencucci, Maria Piro, Antonella Santullo. Gli Autori Caterina Galletti, infermiere e pedagogista, corso di laurea magistrale in Scienze infermieristiche e ostetriche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma.Loredana Gamberoni, infermiere, coordinatore del corso di laurea specialistica/ magistrale dal 2004 al 2012 presso l’Università di Ferrara, sociologo dirigente della formazione aziendale dell’Aou di Ferrara fino al 2010. Attualmente professore a contratto di Sociologia delle reti di comunità all’Università di Ferrara.Giuseppe Marmo, infermiere, coordinatore didattico del corso di laurea specialistica/ magistrale in Scienze infermieristiche e ostetriche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede formativa Ospedale Cottolengo di Torino fino al 2016.Emma Martellotti, giornalista, capo Ufficio stampa e comunicazione della Federazione nazionale dei Collegi Ipasvi dal 1992 al 2014.

Caterina Galletti, Loredana Gamberoni, Giuseppe Marmo, Emma Martellotti | 2017 Maggioli Editore

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Bisogna in primo luogo fare riferimento al concetto della autodeterminazione personale, valutando la possibilità che questa possa in alcuni casi prevalere sul bene salute. In ossequio all’orientamento prevalente in sede giurisprudenziale e non solo, si può adesso prendere in considerazione che, in alcuni di questi casi, l’autodeterminazione possa incidere anche sulla sfera del bene salute del paziente stesso.

Senza entrare però nel dettaglio delle altre vicende attinenti alla questione sopra citata si evidenzi che, per ciò che riguarda il caso della mancata volontà di sottoporsi alle cure trasfusionali mediante la collana,il bracciale o il tatuaggio con l’indicazione del dissenso, questo non abbia validità. La ragione è che le manifestazioni personali attinenti alla sfera della salute o all’autodeterminazione devono, per avere efficacia legale, essere prestate nella attualità e cogenza del fatto.

la ratio di tale orientamento

Questo perché si vuole tutelare al massimo la posizione del cittadino, il quale può anche solo ipoteticamente, aver prestato il proprio consenso qualche mese prima, o qualche giorno prima l’evento dannoso, ma se informato e qualora in grado di comprendere la gravità della situazione in cui versi, nulla vieta di ipotizzare che avrebbe comunque voluto o potuto cambiare idea repentinamente.

Martino Di Caudo

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