La nota esprime il pensiero del direttivo dell’Associazione Avvocatura di Diritto Infermieristico, e nella piena libertà di espressione delle parti in gioco, in merito alla questione, la nostra redazione si limiterà a dare disponibilità, spazio e credito ad entrambe le controparti con i loro commenti (basterà inviare un messaggio privato alla pagina Facebook di Dimensione Infermiere).
A FAVORE DEL PROTOCOLLO FNOPI SI È SCHIERATA LA “CAVALLERIA”.
Le truppe cammellate si sono disposte per la controffensiva finale, c’era da aspettarselo ovviamente.
A neanche una settimana di distanza dal nostro commento al protocollo, sono apparsi diversi articoli sulle riviste più accreditate che evitano di affrontare il punto di diritto sollevato dall’AADI rispetto al requisito contenutistico del protocollo stesso, tentando nel contempo di spostare l’attenzione della comunità infermieristica su argomenti che sfiorano il nocciolo centrale, per non dire che lo sorvolano proprio, andando a parare invece su aspetti non pregnanti e decisamente fuorvianti per l’applicazione del protocollo stesso.
Ci riferiamo ovviamente al fatto che si stanno impegnando alacremente per mettere in dubbio ogni titolo, dal master in infermieristica forense alla laurea magistrale, passando per i requisiti primari e secondari, facendo iperboli dialettiche nel tentativo di accreditare questo protocollo come il migliore possibile che potessero confezionare i nostri vertici infermieristici, come a dire che, tutti gli anni impiegati in risorse utilizzate dalle Università, ancorché private, dai discenti infermieri e dai docenti infermieri ed avvocati, nel tentativo di formare professionisti che avessero una specifica competenza nel settore giuridico-legale e che distinguessero lo specializzato dalla massa, sono stati sprecati e non hanno prodotto nessun risultato, men che meno quello che si prefiggevano.
E’ pleonastico ribadire che non siamo per nulla d’accordo essendo assolutamente convinti che i master, di qualsivoglia specialità essi siano, sono in grado di garantire una competenza ed un quid curriculare in più che altrimenti non si potrebbe ottenere.
Si potrebbe certamente disquisire all’infinito sul fatto che le Università potrebbero arricchire maggiormente i loro piani didattici o perlomeno modificarli in un senso, piuttosto che nell’altro, ma non è questo il punto su cui confrontarsi al presente, bensì sul contenuto del protocollo.
Il protocollo viene definito dal giurista Benci – che ricordavamo essere anche infermiere-, come “coerente con le finalità della novella normativa Gelli-Bianco”; nessuno lo aveva messo in dubbio, ma l’esimio giurista dimentica gli aspetti sostanziali del protocollo, siamo per altro in accordo con lui sul requisito della laurea magistrale, ma con delle deroghe, che erano necessarie ed opportune ma che evidentemente non sono state per nulla considerate dai redattori del protocollo stesso.
Deroghe che avrebbero consentito in 5 anni, ad esempio, a tutti i masterizzati che avessero realmente voluto intraprendere la carriera infermieristico-legale – sia che essa venisse svolta in tribunale o in altre strutture ed uffici pertinenti-, di poter completare il loro percorso didattico, così da poter soddisfare tutti i requisiti richiesti dal protocollo stesso.
A parte l’aspetto marginale della laurea magistrale, che avrebbe potuto essere inserita non come requisito primario escludente tutti i requisiti secondari, ma come requisito al pari del master in forense, il quesito che ci sentiamo di porre è: perché gli illustri giuristi non hanno nemmeno lontanamente sfiorato i caratteri sostanziali del protocollo FNOPI-CSM?
Gli illustri giuristi – così vengono definiti da altri commentatori -, membri sempre dello stesso “enclave” e quindi collegati direttamente o indirettamente con la FNOPI, hanno difeso e continuano a difendere strenuamente il protocollo nella sua interezza e nei suoi contenuti, evitando però gli argomenti scottanti che invece qui verranno ribaditi e puntualizzati.
Qualsiasi giurista anche alle prime esperienze avrebbe senz’altro stigmatizzato e puntualizzato, evidenziando tutti i punti lesivi del diritto sostanziale che cozzano contro norme di diritto costituzionale che definiscono i rapporti di base della societas così come oggi la consociamo, questa volontà di non entrare nel merito del protocollo attraverso la sua esegesi giuridica, delineandone di fatto solo i contorni ed addolcendone le storture, ovvero omettendo i punti sostanziali, in punta di diritto .
Tralasciando tutti gli aspetti che a nostro avviso sono condivisibili e che per onestà intellettuale non contestiamo, su alcuni punti non possiamo non entrare in netto contrasto con gli esimi giuristi che ne hanno tessuto le lodi, nello specifico:
Art. 3, co. 5, lett. c); nell’assenza negli ultimi 5 anni di sospensione disciplinare e nell’assenza di qualsiasi procedimento disciplinare in corso; è del tutto evidente l’incongruità del comma indicato. Ben conosciamo come vengono oggi utilizzate le procedure disciplinari in ambito di rapporto di lavoro, sia esso pubblico che privato. Analizzando attentamente la norma che disciplina dette procedure, D.lgs. n. 165/2001; D.lgs. n. 150/2009; art. 7, legge n. 300/70, ci rendiamo subito conto che – ipotizzando che la procedura sia stata formalmente corretta e legittima -, la sanzione inflitta al dipendente decade e viene quindi espunta dal fascicolo disciplinare, financo ai fini della recidiva, dopo due anni, cioè a dire che, qualsiasi sanzione inflitta dopo il predetto periodo non è più esistente è estinta. Nel protocollo FNOPI invece si prescrive un limite di 5 anni retroattivamente finalizzato all’iscrizione presso i Tribunali d’Italia, alimentando il sospetto che sia stato indicato un numero a caso pur di chiudere il protocollo, senza prima avere il buon senso di leggere le norme sui procedimenti disciplinari. Se tutte le sanzioni disciplinari si estinguono in due anni, quale necessità è sopraggiunta per farle durare 5 anni nel protocollo?Cosa si voleva ottenere di diverso da quello che la stessa norma definisce e sancisce? È mai possibile prevedere in un regolamento una “norma” che riformi in pejus una norma di diritto sostanziale? Evidentemente no, visto che, nella gerarchia delle fonti normative, le leggi Costituzionali, le leggi, i decreti legge i D.Lgs sono fonti primarie del diritto, mentre i regolamenti governativi, amministrativi, ministeriali, prefettizi o di enti pubblici non economici, sono fonti secondarie e quindi soggiacciono alla prevalenza della norma sostanziale sul regolamento, rendendolo motivo di impugnazione dinanzi al TAR. Il punto successivo menziona addirittura i procedimenti disciplinari in corso; è evidente il vulnus che genera una siffatta previsione regolamentare, è doveroso rammentare che, l’art. 24 della Costituzione, concorre con le libertà fondamentali riconosciute agli artt. 13, 14 e 15, a determinare il c.d. statuto di indipendenza della persona umana che, come le stesse libertà, è caratterizzato dal connotato della inviolabilità̀. Lo stesso articolo primo comma, enuncia il diritto alla tutela giurisdizionale,che la Costituzione garantisce all’art. 2, (Sent. n. 98 del 1965) e che non esita ad ascrivere tra i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia, l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio (Sent. n. 18 del 1982), trovando attuazione uguale per tutti, indipendentemente da ogni differenza di condizioni personali e sociali (Sent. n. 67 del 1960).
Il diritto di ogni cittadino di agire in giudizio deve essere posto in correlazione con il diritto di difesa di cui al secondo comma del medesimo art. 24 Cost.: «in questo modo si rende concreto e non soltanto apparente il diritto alla prestazione giurisdizionale, che è fondamentale in ogni ordinamento basato sulle esigenze indefettibili della giustizia e sui cardini dello Stato di diritto» (Sent. n. 46 del 1957), poiché́ «il testo complessivo dell’art. 24 Cost., nella successione dei vari commi, esclude qualsiasi perplessità in proposito e porta a concludere che essenziale finalità delle norme in esame è quella di garantire a tutti la possibilità di tutelare in giudizio le proprie ragioni» (Sent. n. 125 del 1979).
Non aver previsto lo stesso diritto in capo agli infermieri, cioè l’opportunità di potersi difendere fino al terzo grado di giudizio, fosse anche solo per una questione di principi di diritto e di illibatezza dell’immagine professionale, è da ritenersi impugnabile per violazione dei primari principi costituzionali.
Non aver previsto una deroga o una iscrizione con riserva, dimostra che chi ha redatto il protocollo non voleva concedere, come da previsione costituzionale, la presunzione di innocenza o di non colpevolezza fino a sentenza passata in giudicato. L’art. in questione, ossia, l’art. 27 Cost. che al comma 1 prevede che la responsabilità penale è personale – la normativa sulle sanzioni disciplinari attinge proprio dalle fonti di diritto processuale penale-; -al co. 2 invece esprime che l’imputato non è considerato colpevole fino a sentenza definita, tale comma disciplina il principio di presunzione di non colpevolezza (v. art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea). Esso implica non solo il diritto di ciascuno di non essere considerato colpevole, a tutela della onorabilità, reputazione ed integrità fisica (2, 3 Cost.; art. 3 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), ma anche il diritto a non vedersi inflitte sanzioni restrittive della libertà personale se non dopo la condanna definitiva.
Ma agli infermieri tutto ciò non è consentito!
C’è di più:
Art. 3, co. 7; “…è raccomandabile che il Comitato consideri complessivamente gli elementi primari e secondari. Il mancato possesso di uno degli elementi primari dovrebbe far presumere l’assenza di speciali competenze, precludendo l’iscrizione all’albo.” Anche questo articolo ribadisce che, la non presenza di uno solo dei requisiti primari, presuppone la mancata considerazione dei requisiti secondari, ponendo sullo stesso piano, laurea magistrale, possesso di crediti ECM, sanzioni disciplinari e anzianità di servizio: un pastrocchio degno di un esperto in disastri.
Detto ciò, avremmo gradito che gli “esimi giuristi” avessero commentato questi due semplici aspetti del protocollo in modo da fornirci il loro personale punto di diritto in merito alla costituzionalità o meno di detti artt. e della loro reale applicabilità nella realtà lavorativa senza vulnerare i diritti quesiti di coloro i quali negli anni hanno investito soldi e tempo e privato la famiglia della loro presenza per potersi istruire e specializzare.
Siamo sempre disponibili al dialogo ed al confronto con le parti per il bene della comunità infermieristica.
Il direttivo dell’AADI
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento