Effetto placebo, nocebo e drucebo in medicina

Gaetano Romigi 07/11/24
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“Placebo” è l’indicativo futuro del verbo latino “placere” – dunque significherebbe letteralmente “io piacerò”. Nel Medioevo si diffuse in Inghilterra l’usanza di far cantare alle praefiche (donne che vendevano il loro pianto straziante per amplificare l’impatto emotivo dei funerali) un versetto della Bibbia, “Placebo Domino in regione vivorum”, erroneamente tradotto da San Girolamo. Fu così che il termine “placebo” diventò sinonimo di comportamenti falsi e insinceri.

Indice

L’evoluzione dell’effetto placebo: tra storia e scienza

Nella sua accezione contemporanea legata al mondo della farmacologia, il termine placebo compare per la prima volta all’interno del New Medical Dictionary del 1785, ove viene utilizzato per definire una medicina dozzinale e grossolana. Solo alla fine dell’Ottocento il termine assume il significato attuale, ossia di sostanza inerte, non farmacologicamente attiva.

Secondo l’opinione di molti studiosi la storia della medicina sarebbe in buona parte storia dell’effetto placebo: molti rimedi del passato rivelatisi, in seguito, privi di valenza scientifica quali il salasso, l’uso dell’arsenico per le ferite, l’uso di veleno di serpente, producevano tuttavia risultati. Il paziente, convinto dell’efficacia del trattamento, otteneva effetti positivi, manifestando ciò che oggi chiamiamo effetto placebo.

Nel XVIII secolo, il medico inglese Elisha Perkins sosteneva che molte malattie potessero essere curate passando sul corpo del paziente delle bacchette di metallo. Il principio su cui si basava il trattamento era il presunto magnetismo delle bacchette, in grado di esercitare azione terapeutica e indurre il corpo alla guarigione.

Interessato agli studi di Perkins, un altro medico inglese, suo contemporaneo, John Haygarth (epidemiologo e reumatologo), allestì quello che viene considerato a tutti gli effetti il primo esperimento a confronto con placebo della storia della medicina: Haygarth confrontò l’effetto delle bacchette di Perkins con quello di bacchette simili ma realizzate in legno e dunque per loro natura prive di qualsiasi effetto magnetico. I risultati che ottenne furono del tutto analoghi a quelli ottenuti con le bacchette di metallo e ciò portò Haygarth a concludere che l’”effetto Perkins” fosse mera suggestione. John Haygarth si interessò ancora di più al fenomeno, intuendone le potenzialità in ambito terapeutico e aprendo la strada all’utilizzo del placebo come rimedio per migliorare le condizioni del paziente, laddove, per esempio, non fosse possibile l’utilizzo di farmaci.

Nel 1939, il medico italiano Davide Fieschi mise a punto un nuovo metodo di trattamento per l’angina pectoris: basandosi sull’osservazione per cui l’aumento del flusso di sangue al cuore poteva ridurre il  dolore tipico dell’angina (causato da insufficiente ossigenazione a livello cardiaco), iniziò a trattare i pazienti effettuando, tramite piccole incisioni sul petto, la doppia legatura delle arterie mammarie. Questa legatura, nelle intenzioni di Fieschi, avrebbe provocato una “deviazione” del flusso sanguigno verso il pericardio aumentando l’apporto di sangue e di ossigeno al cuore.

Questo intervento divenne una procedura standard per il trattamento dell’angina pectoris durante i successivi 20 anni, finché nel 1959 il cardiologo Leonard Cobb condusse un esperimento per valutare l’effettiva efficacia del trattamento Fieschi, con risultati a dir poco inaspettati. Cobb divise 17 pazienti in attesa di trattamento chirurgico in due gruppi: uno fu trattato con la doppia legatura delle arterie mammarie, mentre all’altro furono praticate solamente le incisioni. Ebbene, nei pazienti non operati si verificò la stessa riduzione del dolore e lo stesso miglioramento delle alterazioni cardiache riscontrati nel gruppo operato.

Questo esperimento rappresentò a tutti gli effetti la prima dimostrazione del fatto che l’effetto placebo potesse funzionare anche in ambito chirurgico.

Gli studi scientifici sull’effetto placebo

L’importanza dell’effetto placebo in ambito diagnostico fu oggetto di uno studio pubblicato nel 1987, in cui furono reclutati 200 pazienti con generici e non correttamente diagnosticati problemi di salute. I partecipanti furono divisi in due gruppi: al primo fu detto che non era chiara la ragione del loro malessere e non era possibile formulare una diagnosi precisa, mentre al secondo gruppo fu comunicata chiaramente l’origine del problema e l’elevata probabilità evoluzione positiva dei sintomi dopo il trattamento proposto. Ebbene, dopo solo due settimane di cura, il 64% dei pazienti del secondo gruppo manifestava segni di miglioramento, a fronte del solo 39% degli appartenenti al primo gruppo.

Numerosi test seguirono quelli appena descritti, permettendo di approfondire sempre meglio gli effetti del trattamento placebo e l’evidente correlazione tra attitudine positiva del paziente e risultato della terapia.

Proprio in ragione del coinvolgimento emotivo e mentale della persona, l’ambito clinico in cui è stato maggiormente approfondito e applicato l’effetto placebo è, senza dubbio, quello psichiatrico, in particolar modo nel trattamento delle sindromi ansioso-depressive.

Le moderne tecniche di neuro-imaging (PET) hanno permesso di fare enormi passi avanti nella comprensione delle alterazioni cerebrali in presenza di disturbi psichiatrici e hanno consentito di evidenziare, in taluni casi, effetti analoghi indotti sia dal trattamento farmacologico che dal solo placebo: in base a tali studi, per citare un esempio, sembra che una particolare area del cervello – il nucleus accumbens – sia coinvolta in modo significativo nella risposta al trattamento con placebo sia nella depressione che nel trattamento del dolore generato dal morbo di Parkinson. Per inciso, il nucleus accumbens è la struttura cerebrale deputata al meccanismo di ricompensa: quella che ci fa pregustare la gioia di un successo, del raggiungimento di un traguardo, quella che sta alla base delle nostre motivazioni a perseguire un obiettivo e così via. Non stupisce, dunque, il suo coinvolgimento nell’insorgenza dell’effetto placebo.

Anche l’ansia anticipatoria, cioè quella forma di ansia che precede una situazione di stress, è stato oggetto di studi di neuro-imaging i quali hanno dimostrato che essa è uno dei meccanismi sui quali si basa l’effetto nocebo. In alcune situazioni, è possibile prevenire la comparsa del dolore mediante l’uso di ansiolitici, come le benzodiazepine. Recentemente si è visto come questo tipo di ansia induca l’attivazione nel cervello di colecistochinina (CCK), la quale produce a sua volta un effetto amplificante sul dolore. Questo effetto va sotto il nome di iperalgesia da nocebo: quando il soggetto si aspetta la comparsa di un dolore intenso, la sua ansia attiva la CCK che aumenta la percezione del dolore. Il risultato è la comparsa di dolore, anche se non è presente alcuno stimolo dolorifico.

Gli studi hanno evidenziato un’attivazione di maggiore intensità delle regioni cerebrali coinvolte nella percezione del dolore durante l’insorgenza dell’ansia anticipatoria: nel nucleus accumbens è stato individuato un altro neurotrasmettitore coinvolto nell’iperalgesia da nocebo, ossia la dopamina.

È stato infatti dimostrato che nel suddetto nucleo, mentre si ha un’attivazione della dopamina durante l’analgesia da placebo, questo neurotrasmettitore subisce una deattivazione durante l’iperalgesia da nocebo. La partecipazione di più neurotrasmettitori, dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con aumento dei livelli di cortisolo circolante (l’ormone dello stress), la CCK e la dopamina nell’effetto nocebo dimostrano l’alta complessità del fenomeno. Pertanto è erroneo pensare che l’effetto nocebo consista semplicemente nell’assenza dell’effetto placebo.

Effetto Placebo e Nocebo: genetica e impatti sulla salute

Nonostante gli anni di studio e di test condotti, non si conosce ancora esattamente quali meccanismi fisiologici si attivino quando si manifesta il cosiddetto effetto placebo. Le tre ipotesi più accreditate nell’ambito della comunità scientifica sono:

  • Il modello basato sull’aspettativa che spiega come pensieri e atteggiamento mentale possano esercitare un enorme effetto sullo stato di salute della persona, arrivando ad agire a livello biochimico, influenzando la risposta neuronale, ormonale e immunitaria e determinando quindi l’effetto terapeutico. Allo stesso modo, un atteggiamento negativo e pessimista può determinare un effetto nocebo, con peggioramento delle condizioni di salute.
  • Il riflesso condizionato (modello di Pavlov) si basa sull’attitudine derivante da una pregressa esperienza positiva con l’operatore e con la terapia seguita in precedenza: i risultati positivi ottenuti determinano l’instaurarsi di un atteggiamento di fiducia nei confronti sia dell’operatore che del trattamento proposto.
  • Il modello oppioide, infine, identifica nel rilascio di endorfine (i neurotrasmettitori del buonumore) il responsabile dell’effetto placebo: la dimostrazione del fenomeno deriva dall’evidenza (ottenuta con tecniche diagnostiche) dell’attivazione delle aree cerebrali coinvolte nell’attività oppioide, quando la persona assume il placebo. Come ulteriore prova del coinvolgimento di questo meccanismo – che, lo ricordiamo, è un meccanismo fisiologico presente in ogni individuo – sono stati condotti alcuni test sull’analgesia indotta dall’effetto placebo: questi studi hanno evidenziato come l’analgesia possa essere interrotta utilizzando antagonisti degli oppioidi, come il naloxone: la persona è convinta che un trattamento funzioni, il suo cervello libera endorfine che attivano le vie fisiologiche della produzione di oppioidi nel corpo, che inducono sensazione di benessere e riducono la percezione del dolore. La persona non ha assunto alcuna sostanza esterna che stimoli questi eventi. Se tuttavia assume un farmaco che va a contrastare l’azione degli oppioidi, l’effetto si interrompe – a dimostrazione che il meccanismo era stato effettivamente attivato.

Sebbene inizialmente considerate come una l’alternativa dell’altra, oggi queste ipotesi sono considerate coesistenti e complementari nel determinare la risposta del paziente e l’eventuale effetto placebo. In ogni caso, è proprio l’atteggiamento del paziente, il suo ottimismo o pessimismo, la sua capacità di autosuggestione, la fiducia o sfiducia nell’operatore sanitario a fare da discrimine tra effetto placebo o nocebo.

Quale che sia l’effetto predominante è pressoché certo, nella pratica clinica, che l’effetto nocebo possa essere potente quanto quello placebo: ne deriva l’importanza di lavorare, ogniqualvolta sia possibile, anche sull’atteggiamento del paziente e sull’instaurarsi di un rapporto di fiducia con il personale sanitario – aspetti che secondo alcuni studiosi farebbero una grande differenza nell’esito della terapia.

Nel libro “Biology of belief”, (“La biologia delle credenze” del Dr Bruce H. Lipton), l’autore descrive il caso di un medico di Nashville, Clifton Meador, che nel 1974 stava trattando un paziente con carcinoma all’esofago – malattia allora considerata fatale. Nessuno dello staff medico aveva nascosto al paziente la gravità della sua malattia. Quando il paziente morì e fu sottoposto ad autopsia, grande fu lo stupore per quanto si presentò davanti agli occhi dei medici: il carcinoma era di dimensioni irrisorie, certamente non sufficienti a determinare la morte dell’uomo. Il dott. Meador si chiese se non fosse stata la diagnosi infausta a “programmare” la mente del paziente e a privarlo della speranza di guarire.

Tali esempi possono costituire un importante spunto di riflessione sull’impatto emotivo di una diagnosi e del conseguente atteggiamento che può manifestare una persona di fronte alle terapie in corso. D’altronde è noto e documentato che pazienti con atteggiamento positivo rispondono, in generale, meglio rispetto a pazienti con atteggiamento pessimista e sfiduciato.

Ovviamente, a fronte dell’evidente influenza dell’effetto placebo nel processo di guarigione di molte patologie, questo non significa che esso possa rappresentare una sorta di giustificazione per trattamenti bizzarri, scorretti o addirittura potenzialmente nocivi: si tratta, piuttosto, di sfruttare la potenzialità di questo effetto e massimizzarlo, per aumentare l’efficacia della terapia farmacologica e stimolare un atteggiamento positivo e collaborativo da parte del paziente, aumentandone così le possibilità guarigione.

Per misurare correttamente l’effetto placebo occorre, tuttavia, escludere una serie di fattori che nulla han­no a che fare con l’effetto placebo reale, poiché il miglioramento clinico osservato dopo la somministrazione di un placebo (come anche in seguito a qualsiasi terapia) può essere dovuto a fattori diversi:

  • La remissione spontanea di un sintomo, ad esempio, è un evento molto comune.
  • La regressione verso la media, vale a dire un fenomeno statistico in base al quale i pazienti tendono a ricevere la loro prima valutazione clinica quando un sintomo, come il dolore, o un parametro fisiologico sono vicini al loro massimo valore, e che tale valore tende a essere minore quando il paziente torna per una seconda valutazione.
  • L’ambiguità del sintomo stesso (spesso si ha solo un’impressione soggettiva di una sua lieve riduzione).
  • La tendenza del paziente a compiacere il medico.
  • Il possibile effetto di concause non identificate come, ad esempio, una dieta particolare che il paziente sta seguendo all’insaputa del medico.

L’effetto placebo/nocebo sono, quindi, fenomeni psicobiologici in grado di coinvolgere meccanismi molto complessi a livello cerebrale come l’aspettativa del miglioramento clinico, la riduzione dell’ansia, l’apprendimento e la memoria e, anche, determinati fattori genetici.

Alcune varianti genetiche sono correlate, infatti, con la risposta placebo, sebbene le ricerche in questa direzione siano ancora scarse, a causa della complessità dell’approccio metodologico e del disegno sperimentale da definire. Nell’ansia sociale, i portatori dell’allele l (long) del gene per il trasportatore della serotonina (5-HTTLPR, 5-HydroxyTryptamine-Transporter-Linked Promoter Region) e i portatori dell’allele G della triptofano idrossilasi 2 (TPH2, TryptoPhan Hydroxylase 2) rispondono bene a un placebo, il quale induce anche una riduzione dell’attività in una regione cerebrale responsabile dell’ansia sociale, l’amigdala. Al contrario, i portatori dell’allele 
s (short) per il 5-HTTLPR e dell’allele T per la TPH2 non mostrano questa risposta. Appare quindi evidente come alcune varianti genetiche di determinati neurotrasmettitori cerebrali, come la serotonina, influenzino le risposte placebo attraverso la differente modulazione di regioni cerebrali specifiche.

Sarebbe corretto affermare, pertanto, che non esiste un solo effetto placebo, ma molti che avvengono con differenti meccanismi e in altrettanto diversi sistemi e apparati dell’organismo.

Lo studio approfondito dell’effetto nocebo è ostacolato da inerenti problemi etici

Per studiare l’effetto nocebo è necessario indurre aspettative negative, come effettuare, ad esempio, una procedura che secondo il soggetto produrrà un aumento del dolore. In altre parole, una procedura nocebo induce stress nei soggetti che si sottopongono ad essa, quindi è eticamente possibile indurre una risposta nocebo solo in condizioni particolari come in soggetti volontari sani ma non in pazienti.

L’effetto nocebo è presente nella nostra vita quotidiana molto più di quanto possiamo immaginare. Un esempio è rappresentato dai messaggi lanciati dai mezzi di comunicazione di massa riguardo ai pericoli e ai danni per la salute. Tali messaggi possono indurre aspettative negative in coloro che li ricevono, al di là dell’effettiva esposizione di chi li ascolta.

Ad esempio, alcuni studi recenti hanno dimostrato che il solo credere che un telefono cellulare possa produrre danni alla salute spesso può provocare l’insorgenza di sintomi di diversa natura. Analogamente, gli effetti collaterali dei farmaci, descritti nel bugiardino, spesso sono solo effetti nocebo: leggere che un farmaco può indurre nausea, in alcuni soggetti può provocarla realmente. Una diagnosi negativa può sortire lo stesso effetto: infatti il paziente presenterà una sintomatologia più severa per il solo motivo che si aspetta un peggioramento della sua situazione.

L’effetto nocebo è stato studiato anche sotto il profilo antropologico nelle culture in cui vengono effettuate pratiche magiche e religiose. Un esempio eclatante è la magia vodù, in cui un estremo stress psicologico può portare a una situazione di una certa gravità e perfino all’arresto cardiaco.

Impiego dell’effetto placebo nei test di efficacia dei farmaci

In alcuni studi la componente placebo di un trattamento medico consiste nel somministrare una terapia finta, al fine di escludere l’effetto specifico della terapia stessa. È possibile cambiare questo approccio sperimentale in senso diametralmente opposto, ovvero eliminando la componente placebo e mantenendo l’effetto specifico di una terapia. In questo modo una terapia, per es. farmacologica, è somministrata all’insaputa del paziente, cioè in maniera inaspettata. Se si paragona l’effetto del farmaco assunto inconsapevolmente con quello ottenuto mediante la somministrazione in piena consapevolezza del paziente, l’efficacia del farmaco nascosto è minore. Tale meccanismo è stato dettagliatamente descritto per diversi antidolorifici di uso comune, come la morfina, la buprenorfina, il tramadolo, il ketorolac, il metamizolo. In altre parole, una terapia somministrata di nascosto è meno efficace di una terapia resa esplicita.

La differenza fra la somministrazione nascosta, in cui il paziente non ha alcuna aspettativa di beneficio terapeutico, e quella palese, in cui il paziente si aspetta un effetto terapeutico, rappresenta la componente placebo (ossia psicologica) della terapia, anche se non è stato somministrato alcun placebo. Ovviamente, maggiore è la differenza, maggiore è la componente placebo e minore è l’effetto del farmaco.

Ad esempio, un farmaco può essere efficace se assunto consapevolmente, ma del tutto inefficace se somministrato di nascosto. In questo caso la differenza è enorme e rivela che il farmaco di per sé è del tutto inefficace e che la sua somministrazione nella consapevolezza del paziente produce solo un effetto placebo. Al contrario, se non vi è alcuna differenza fra somministrazione esplicita e nascosta, il farmaco risulta efficace. In altre parole, se un farmaco (o qualsiasi altro trattamento medico) è veramente efficace, non dovrebbe fare alcuna differenza somministrarlo al paziente che sa di riceverlo oppure a sua insaputa. Queste osservazioni sono importanti per diversi motivi: 

      a) la somministrazione nascosta di una terapia evidenzia come la componente placebo sia presente anche in assenza di somministrazione di un placebo; 

      b) appare chiaro come la componente placebo non sia altro che l’elemento psicosociale intorno al paziente: quando il paziente non sa di ricevere qualcosa, e quindi non si aspetta nulla, l’effetto del farmaco risulta minore; 

      c) l’effetto di un farmaco somministrato di nascosto rappresenta il reale effetto farmacodinamico della sostanza iniettata, senza la ‘contaminazione’ della componente psicologica; 

      d) dal punto di vista strettamente etico, è possibile testare l’efficacia di una terapia senza la somministrazione di alcun placebo, in accordo con la Dichiarazione di Helsinki del 1964, sviluppata dalla World Medical Association (WMA). Sebbene questo si possa fare solo in alcune circostanze e per alcune terapie, vale la pena di sviluppare nuovi trials clinici dove la somministrazione nascosta viene sostituita al placebo. Al fine di superare il problema etico della somministrazione all’insaputa del paziente, a questo viene detto che riceverà una terapia, ma senza specificare quando. In tal modo, il paziente può dare il suo totale consenso.

    L’effetto drucebo

    Negli ultimi anni, l’International Lipid Expert Panel ha introdotto il concetto di effetto “drucebo” (DRUg + pla/noCEBO = farmaco + pla/nocebo) associato ai trials inerenti ai benefici o gli effetti collaterali dei farmaci. I farmaci, infatti, non sono sostanze inerti, pertanto i termini “effetto placebo/nocebo” non risultano semanticamente appropriati.

    L’effetto drucebo, quindi, confronta l’intensità dei sintomi quando si utilizza un farmaco in condizioni di cieco e in condizioni open-label, fornendo una visione quantitativa della misura in cui i sintomi possono derivare dalla sola aspettativa. Gli effetti benefici causati dall’aspettativa piuttosto che dall’azione farmacologica del principio attivo (analoga a quella del placebo), sono definiti “effetto drucebo positivo”, mentre gli effetti collaterali attesi (analoghi al nocebo) sono definiti “effetto drucebo negativo. In particolare, l’International Lipid Expert Panel, per valutare il contributo dell’effetto “drucebo” all’interruzione delle statine e ai sintomi muscolari indotti da statine è stata effettuata una revisione sistematica di studi randomizzati e controllati sulla terapia con statine.

    Sono stati inclusi gli studi controllati randomizzati che permettevano di quantificare l’effetto “drucebo” confrontando l’incidenza di sintomi muscolari rilevati tra le fasi in cieco e quelle “open-label” dei trial stessi. In questo modo sono stati selezionati cinque studi: da tutti è emerso un eccesso di effetti collaterali in condizioni di “open-label”, con contributo dell’effetto “drucebo” al dolore muscolare associato alle statine tra il 38% e il 78%.

    L’intolleranza muscolare alle statine è un problema di grande rilevanza clinica, in quanto rappresenta uno dei principali determinanti della mancata aderenza alla terapia e, di conseguenza, sugli effetti negativi che tale mancata aderenza ha sulla salute cardiovascolare. Prima di interrompere definitivamente un trattamento ipocolesterolemizzante efficace, i medici dovrebbero essere consapevoli che molto spesso i sintomi muscolari possono essere attribuiti all’effetto “drucebo” negativo delle statine, legato ad una sproporzionata aspettativa negativa da parte del paziente riguardo gli effetti avversi del farmaco. È possibile che la grande attenzione dei media focalizzata sugli effetti negativi delle statine abbia portato a una prevalenza particolarmente elevata degli effetti “drucebo” negativi. Esistono criteri clinico-laboratoristici che possono essere utili nella definizione della “vera” intolleranza alle statine e sono stati formulati algoritmi per la gestione dei pazienti con SAMS (sintomi muscolari associati all’assunzione di statine), con l’obiettivo di evitare ingiustificate interruzioni del trattamento e garantire il raggiungimento degli obiettivi terapeutici.

    Autore: Gaetano Romigi – VicePresidente Aniarti

    Bibliografia essenziale:

    Gaetano Romigi

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