Gli infermieri nel film su Stefano Cucchi “Sulla mia pelle”.

Dario Tobruk 17/09/18
Credo non sia necessario riassumere la vicenda che ha portato alla morte di Stefano Cucchi. Da 9 anni cronache giornalistiche, documentari, inchieste, smuovono ancora le coscienze degli italiani e dividono le opinioni.

Il 12 settembre di quest’anno, su Netflix e in contemporanea nelle sale cinematografiche italiane è uscito il film “Sulla mia pelle”, regia di Alessio Cremonini con protagonista Alessandro Borghi nel ruolo del Cucchi. Il film si presenta come una fotografia chiara e nitida di una ricostruzione basata su verbali e documenti.

Sulla vicenda giudiziaria, sull’assoluzione dei sanitari, medici e infermieri, e delle forze dell’ordine si è ampiamente discusso e questo non è il luogo in cui proseguire con ulteriori analisi. Qui vogliamo parlare dell’immagine che emerge degli infermieri in questa ricostruzione.

Gli infermieri nel film

Nel film “Sulla mia pelle” gli infermieri esistono e non sono comparse da fiction americana. Per quanto approssimativa possa essere la ricostruzione del film, quando l’infermiere deve essere presente, l’infermiere c’è.

Peccato per quello che si vede, però.

Succubi del medico alla sua presenza e cinici e inutilmente empatici quando assente, quello di cui necessitava Stefano Cucchi era un’attenta valutazione clinico-assistenziale: quanto mangia, quanto beve, quanto pesa? Cateterizzato ma non viene valutata la diuresi. Psicologicamente distrutto, rifiuta ogni cura e i sanitari sono ben contenti di scrollarsi di dosso l’onere di convincerlo del contrario.

Un paziente sottopeso, indubbiamente percosso, dolorante e restio ad ogni cura, che rifiuta il cibo e l’acqua per tre giorni e non risulta altro che un passivo incedere dietro ogni decisione medica. L’infermiere nel film di Stefano Cucchi appare come un fantoccio a volte simpatico e accogliente, a volte acido e distaccato.

Nel film l’unico accento di autonomia infermieristica si risolve in un paternalistico rimprovero sull’unico bisogno espresso dal paziente: fumare. Ora, non sappiamo se anche questa ricostruzione sia vera o romanzata ma quello che lo spettatore porta a casa è un gesto vile di un’infermiera che allontana il pacco di sigarette dalla portata del suo assistito affinché non rischi di bruciare tutto addormentandosi con la sigaretta a letto.

La magistratura ha assolto i colleghi e questi non sono più stati coinvolti nelle successive imputazioni. Agli occhi della società civile possono ritenersi innocenti perché con il loro agire negligente non ne hanno comunque “condizionato il decesso”.

Quale giudizio?

Ma quale giudizio, etico e a priori, ne risulta se pensiamo che con il loro agire attento, scrupoloso, zelante e coscienzioso ne avrebbero potuto “condizionare la salvezza”? Cosa pensare del fatto che nel nostro agire professionale si risolve la vita delle persone.

Il giudizio sulla persona e sulla vicenda rimane autonomo ed ognuno di noi può essere libero di pensare quello che vuole sul Cucchi, ma scommetto che nessun infermiere sia in grado di vedere il film senza chiedersi: “cosa avrei fatto io?”.

Posso ripetermi tutto il giorno che avrei agito nei migliori dei modi e che avrei spronato sia il paziente sia il medico a fare di più ma, con il senno di poi, so anche che tutti possiamo assegnarci la nostra versione migliore.

E per questo che consiglio questo film, perché mi sprona a voler fare di più, provare ad andare sempre oltre, perché non sai mai quando questo possa valere una vita.

Ma soprattutto, vorrei fare questo, perché non voglio essere un fantoccio dietro un medico che dall’alto della sua onnipotenza decide chi meriti assistenza e chi no e no, non voglio chiedermi: “io cosa avrei fatto?”. Io, preferisco iniziare subito.

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Dario Tobruk

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