I contenuti della giornalista disabile vanno al di là della tutela degli invalidi, contengono la ricetta per una società migliore. Almeno migliore di quella d’oggi.
Come è nata l’idea del blog “Diversamente affabile, diario di un’invalida leggermente arrabbiata” e di trattare in chiave più leggera la sua malattia?
Ho iniziato a trattare la materia nel 2009. Dal 1993 al 2005 non avevo nessuna percezione della malattia, basti pensare che ho continuato a sciare fino al 2000, la mia vita era cambiata a livello psicologico ma non ‘tecnico’. Quando poi ha iniziato a cambiare anche a livello pratico mi sono improvvisamente resa conto dell’enorme grado di inciviltà che mi circondava. In questo senso la malattia mi è servita da lente di ingrandimento per scoprire il senso di inciviltà della società.
All’epoca scrivevo per La Gazzetta dello Sport e fu così che decisi di proporre la mia rubrica settimanale con cui raccontare un diario sulle diverse forme di inciviltà in cui quotidianamente mi imbattevo. Poi nel 2010 è seguito il blog. La Gazzetta è da sempre il giornale sportivo per antonomasia in cui si celebra il corpo in tutti i modi, per cui avere una rubrica sensibile alla disabilità (peraltro l’unica in Italia) rappresenta una piccola, ma importante goccia in un mare dove spesso questa attenzione non c’è.
L’idea di trattare la materia, che di per sé è ostica e respingente, in chiave più leggera anche se mai superficiale, rispecchia semplicemente il mio modo di vivere la vita: un approccio diverso con cui affrontare il problema e rendere contestualmente più consapevole la stessa persona disabile dei propri diritti e della gravità della mancanza di rispetto altrui.
Spesso i diritti del disabile sono visti come un privilegio, il disabile deve poter fare tutto e se poi lo fa non è più percepito dalla collettività come tale, questo è il punto focale: il paradosso della disabilità.
Quanto è difficile vivere oggi in Italia una situazione di fragilità? Le risposte messe in atto dalla società, sia dal punto di vista istituzionale che civile, sono adeguate?
Vivendo a Roma mi confronto tutti i giorni con una realtà molto difficile, la città è ancora indietro per quanto riguarda i servizi. Le risposte mancano non solo a livello istituzionale ma anche culturale: continua a prevalere la mentalità del menefreghismo, l’idea di retaggio cattolico che chi ha difficoltà deve accettarle e soffrire.
Continuo a constatare la prevalenza di un pensiero malato secondo cui, ad esempio, una rampa deturpa l’ambiente, quando è vero esattamente il contrario perché tutti i luoghi che sono più civili acquistano automaticamente più bellezza e valore. Ciononostante, dal 2009 ad oggi la situazione è migliorata, per lo meno il grado di percezione del problema e di sensibilità è maggiore. La strada da fare, però, è ancora lunga: oggi si semina domani si spera di raccogliere.
La società attuale tende a rimuovere le varie forme di fragilità, in particolar modo l’anzianità, promuovendo un messaggio di anzianità passiva: come andrebbero affrontate queste problematiche?
Il dogma fetido della società attuale, in particolar modo quella occidentale, “più sani più belli” non fa altro che produrre una società discriminante in cui chi è fragile, in particolar modo gli anziani, viene considerato meno di zero. L’idea secondo cui un anziano in quanto non produttivo è da isolare rispecchia una mentalità fascista e nazista; una mentalità destinata a permanere se non si accetta l’anziano come persona da accudire.
Inoltre, la società si dimostra ottusa se lo Stato non sostiene l’anziano non autosufficiente perché in questo modo impegna inevitabilmente una parte attiva della società (i figli e la famiglia) di farsene carico spesso senza aiuti. In una società evoluta invece, oltre che accolto, l’anziano va accudito con un sistema di cura e strutture che deve essere armonico. Là dove un Paese è armonico, infatti, è anche civile e se è civile è anche bello, creando gradevolezza, benessere, pace, non solo per le persone non autosufficienti ma per tutti. Il famoso Welfare è anche l‘armonia del vivere insieme.
La società tende ad escludere le persone in difficoltà, dovrebbe invece assimilare il principio di inclusione e trattarle come risorse nuove proprio perché capaci di sviluppare capacità, forza d’animo, pazienza, coraggio e stratagemmi che le persone autosufficienti raramente sono in grado di attuare.
Parlando di inclusione sociale è sua la definizione di inclusione quale moltiplicatore di forza sociale e non soltanto etica, quale arricchimento per l’intera collettività. Cosa può dirci al riguardo?
Tutte le persone disabili dimostrano capacità che la cosiddetta società “sana” perde spesso di vista (spirito di adattamento, forza d’animo, coraggio, pazienza, uso della ‘quinta marcia’, accettazione, ecc.) e che andrebbero sfruttate adeguatamente. La società “sana”, invece, spesso considera la disabilità un fattore fastidioso e frenante.
Bisognerebbe, quindi, comprendere e raccogliere l’energia positiva di chi vive situazioni di difficoltà. Allo stesso tempo è necessario che anche il disabile operi una rivoluzione interna acquisendo consapevolezza del proprio valore. Consapevolezza senza dubbio facilitata da un contestuale riconoscimento della società esterna. Ad ogni modo, per raggiungere una sperata armonia sociale la strada dell’inclusione è la sola percorribile.
L’esclusione rende i disabili invisibili agli occhi della società: agevolarne le possibilità di autonomia, spostamento e integrazione, promuovendone le possibilità di essere attivi e produttivi è l’unica chiave per riuscire a vivere in armonia.
Se siete interessati a partecipare al Forum della Non Autosufficienza(e dell’autonomia possibile), l’appuntamento di riferimento nazionale dedicato a tutti gli operatori che lavorano con pazienti anziani, disabili e bambini e che si terrà a Bologna il 16 e 17 Novembre:
http://www.dimensioneinfermiere.it/forum-non-autosufficienza-viii-edizione-aperte-le-iscrizioni/
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