Scarsa attrattività
Il motivo fondamentale è la scarsa attrattività della professione: “Senza prospettive di carriera, senza un corrispettivo che consideri l’impegno e la formazione di alto livello, la professione infermieristica perde quell’attrattività di cui in vece il sistema ha oggi bisogno per fare fronte alle gravi carenze quali-quantitative di personale.”
E gli infermieri sono davvero pochi. Lo ha sentenziato senza appello la pandemia e lo gridano a gran voce gli ospedali da decenni. Adesso un po’ tutti sembrano essersi resi conto del grave problema, ovviamente, ma a meno che non vengano trafugati infermieri all’estero (da quei paesi dove preparazione e stipendio sono assai più bassi dei nostri…), per averne di ‘nuovi’ bisogna aspettare.
Azzerare il vincolo di esclusività
“Ferma restando l’importanza essenziale della formazione”, spiega la presidente, “la carenza richiede ora interventi a breve e medio termine, in attesa che il numero di professionisti indispensabile sia formato. Noi abbiamo formulato alcune ipotesi di intervento: la carenza è adesso e non possiamo aspettare 4-5 anni necessari alla formazione.
Per questo stiamo auspicando il superamento definitivo del vincolo di esclusività, perché permetterebbe di utilizzare la risorsa professionale oggi esistente anche in maniera più flessibile più elastica, ovviamente dentro norme e una governance definita così come è accaduto per chi ha già superato il vincolo, come la dirigenza sanitaria e medica.”
Attuare il PNRR senza infermieri è complicato
E intanto la riorganizzazione del nostro SSN raccontata dal PNRR, quella che vuole eleggere la casa come primo luogo di cura e assistenza, è di fatto iniziata senza la sua figura cardine: l’infermiere di comunità, ancora latitante in moltissime realtà.
Già, perché per organizzare una sanità territoriale che funzioni davvero, come spiega la presidente FNOPI, “è necessaria una rete sanitaria territoriale capillare, con un approccio proattivo che assicuri anche minor rischio di sviluppo, riacutizzazione e progressione delle condizioni croniche, una riduzione dei ricoveri ad alto rischio di inappropriatezza.
Maggiore appropriatezza quindi e integrazione sociosanitaria con la possibilità di rispondere in modo personalizzato alle necessità della persona e della famiglia. Per questo sarà necessario, tra l’altro, personale sanitario specializzato e formato, con compensi e possibilità di carriera adeguati e dedicato soprattutto ai fragili per una migliore presa in carico della comunità di riferimento.
E soprattutto in numero sufficiente alle esigenze del nuovo modello. In questo disegno l’infermiere è il naturale ‘collettore’ sia delle professioni tra loro che tra le professioni e i cittadini.”
L’infermiere di famiglia
Una figura formata “ad hoc, specialista per aree di competenza, che si occupa del coordinamento dei servizi, ma anche della gestione e del monitoraggio dell’assistenza alla persona” spiega Mangiacavalli.
“Un infermiere che non ha maggiori responsabilità rispetto a quelle che gli sono già proprie oggi, ma che assume un ruolo di case manager per garantire che l’assistenza scorra liscia sul territorio e che gli ospedali restino davvero luogo di elezione dell’acuzie e dei casi gravi, mentre l’assistenza e la prossimità siano patrimonio del territorio.
Compiti questi che miglioreranno la compliance dei cittadini, ridurranno le liste di attesa e taglieranno i ricoveri, anche quelli impropri, con un vantaggio per i professionisti che potranno lavorare al meglio secondo la loro formazione, per i cittadini che ovviamente troveranno un percorso efficiente e senza duplicazioni, per il sistema che eviterà colli di bottiglia nell’assistenza e spese inutili perché improduttive rispetto a una gestione organizzata dei servizi.”
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