In un reparto Covid: cronache di un infermiere di fronte ad uno Tsunami

Dario Tobruk 06/10/20
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Questo articolo è stato inizialmente pubblicato nel secondo numero dell’anno 2020 della rivista Welfare Oggi. Diretto dalla Prof.ssa Rita Cutini, il periodico si rivolge al personale del settore sociale e socio-sanitario e raccoglie gli articoli dei massimi esperti del settore. Di questa pandemia, ho avuto l’onore di poter raccontare la mia personale esperienza sull’emergenza Covid19 e per questo vorrei condividerla anche con i lettori di Dimensione Infermiere. Credo che molti colleghi si ritroveranno in queste parole, e penso che il modo migliore per non dimenticare sia condividere liberamente i momenti tragici che abbiamo vissuto.

Quando in spiaggia si ritira il mare è perché arriva lo tsunami. Cronache di vita in reparto Covid durante l’emergenza pandemia.

Ci sono volute solo poche settimane per trasformare una notizia lontana in un teatro di guerra in casa. Nei primi mesi di quest’orribile anno, tra colleghi, minimizzavamo la situazione come argomento di discussione preferito. Nessuno di noi, se non immaginandoci protagonisti di un film catastrofico, avrebbe mai pensato di dover affrontare una pandemia mondiale, con le nostre mani e il nostro vivo sudore, dietro a soffocanti camici, visiere e mascherine. Ad essere sinceri, non c’è stato un singolo infermiere o medico, o altro operatore sanitario, veramente pronto ad affrontare quello che è accaduto.

Quando in spiaggia si ritira il mare è perché arriva lo tsunami

Dietro al vetro sterile e protettivo delle nostre vite occidentali, le epidemie, fino ad oggi, sono appartenute a luoghi esotici e lontani. Posti primitivi non civilizzati, in cui la povertà sociale è l’unica giustificazione possibile al propagarsi di un simile male. L’ebola, al massimo, la guardavamo al telegiornale. Tutte le altre epidemie, le studiavamo tutt’al più sui libri all’università. Preoccupati per quelle povere anime nei paesi poveri che dovevano affrontare una simile piaga, i migliori di noi partivano in missione per qualche mese, sicuri in ogni caso di tornare prima o poi, al porto sicuro di casa propria.  Noi infermieri, in Italia, alla peggio ci confrontiamo con la Scabbia o la Tubercolosi. Occupandoci per lo più delle cronicità dei nostri tempi, conseguenze di uno stile di vita esagerato, noi sanitari grazie alla scienza medica pensavamo di aver definitivamente dominato la Natura. O almeno questo era quello che credevamo. Ciò che è successo non era previsto, non era nei piani perfetti delle nostre vite routinarie, anche per noi infermieri, che della gestione dell’inatteso e imprevedibile ne abbiamo fatto un ruolo, un lavoro, una professione.  È come stare in spiaggia e sentire una scossa di terremoto. Pare ci sia stato un terremoto con epicentro in mare, ad almeno cento chilometri lontano dal vostro ombrellone. Sembra sia stato forte, ma siete sicuri che nessuno si sia fatto male, così potete finalmente tornare a rilassarvi anche se notate una certa tensione nei visi intorno a voi. Ad un certo punto, al lato dei vostri occhiali da sole, si manifesta un fenomeno curioso: il mare progressivamente si ritira verso il largo, mostrando tutto il suo frastagliato fondale. Non sapete davvero cosa provare: paura, terrore? Una cosa simile non l’avreste mai pensata possibile. Come i vostri vicini di lido, rimanete tutti a bocca aperta e osservate estasiati quel curioso fenomeno, sospesi in un attimo in cui la normalità si è presa una pausa. Il fuggifuggi generale non riesce a distogliervi da quel terrificante spettacolo della natura: “TSUNami…!” e capite che è già troppo tardi! Ci saremmo dovuti preparare in tempo e non lo abbiamo fatto, perché nonostante sia risaputo da tutti, quando vedi che il mare si ritira, devi scappare a gambe all’aria. Fuggire ora non ha più senso, la cosa più razionale che puoi fare è prepararti all’impatto. Sai già che farà male e che avrai paura ma ti tieni stretto al punto più sicuro a disposizione, a pochi secondi dal disastro che ti travolgerà.

Siamo diventati ‘Reparto Covid’

A metà marzo circa, mi hanno informato che saremmo diventati Reparto Covid. Solo quattro parole e il giorno dopo avrei affrontato il mio tsunami personale; per quanto possa essere salda la presa, un maremoto è comunque un’onda che non puoi fermare. Il Coronavirus è arrivato anche nel nostro piccolo ospedale di provincia, la nostra tranquilla spiaggia lontano dall’epicentro del terremoto, adesso anche lei, travolta da un frangente imprevedibile. Pensare di poter essere risparmiati da un evento simile è stato ingenuo da parte nostra, in particolar modo se la provincia in cui lavori è Brescia, seconda per numero di contagi, in quella che è stata per diversi mesi, una triste gara di contagi tra le province della regione più colpita in Europa. La notte prima del mio turno in reparto Covid, riconosco di non aver dormito bene. Mi aggrappavo con l’immaginazione a tutte le possibili sensazioni che avrei provato, una volta che, mi sarei imbragato dentro una di quelle tute di biocontenimento viste in tv. Fui quasi sollevato quando la mattina dopo, prima di entrare in reparto, scoprii che la sensazione di asfissia che avevo ipotizzato provare, non corrispondeva molto alla realtà. Più che come un astronauta disperso nello spazio profondo (con annesso rumore di ri-respirazione che riecheggia dentro lo scafandro spaziale), ero agghindato con solo una tuta di tessuto non tessuto, visiere di fortuna e mascherine. Sarò sincero, ero molto ridicolo vestito in quel modo. Il fruscìo dei sacchi indossati, che si increspavano mentre raggiungevamo il reparto, ci fece sghignazzare sotto i baffi. Poi una volta entrati, non ridemmo più per molto tempo.

CORONAVIRUS COVID-19

La storia ci insegna che da sempre le società umane combattono, ciclicamente, la loro guerra contro le epidemie, questo nemico astuto, insidioso, implacabile, e soprattutto, privo di emozioni e scrupoli. Eppure, le società umane hanno sempre vinto. Oggi il progresso scientifico e tecnologico sembra librarsi ad altezze vertiginose. Ma, nella guerra contro le epidemie, le armi dell’umanità sono e saranno probabilmente le stesse di quelle che avevamo a disposizione quando questo inarrestabile progresso aveva appena cominciato a svilupparsi, come nel XV secolo della Repubblica di Venezia, nell’800, nei primi anni del ’900. Oggi, è vero, la comunità internazionale può contare su un’incrementata capacità di sorveglianza epidemiologica, su una solida esperienza nella collaborazione tra Stati, su laboratori in grado di identificare i virus e fare diagnosi, su conoscenze scientifiche in continuo progresso, su servizi sanitari sempre migliori, su agenzie internazionali come l’OMS, l’ISS italiano e il CDC americano. Ma oltre alle conoscenze, ai vaccini e ai farmaci, all’organizzazione dei servizi sanitari, per affrontare con successo le epidemie è molto importante il senso di appartenenza alla comunità, la solidarietà sociale e l’aiuto reciproco fra persone. Di fronte ad una minaccia sanitaria, la fiducia nello Stato e nelle scelte delle autorità sanitarie, la consapevolezza del rischio e la solidarietà umana possono aver la meglio sull’ignoranza, l’irrazionalità, il panico, la fuga e il prevalere dell’egoismo che in tutti gli eventi epidemici della storia hanno avuto grande rilevanza.     Walter Pasiniè un esperto di sanità internazionale e di Travel Medicine. Ha diretto dal 1988 al 2008 il primo Centro Collaboratore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la Travel Medicine.

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I respiratori, le maschere e i dispositivi dell’ossigeno li conoscevamo bene, certo, ma ci sembrò comunque strano doverli usare su tutti e tredici i pazienti del reparto. Il suono assordante dei flussi ventilatori è stata l’unica colonna sonora che ci ha accompagnato per mesi. Quasi l’intero ospedale fu velocemente riconvertito all’occorrenza, per affrontare l’emergenza sanitaria. Non facevamo che correre da una parte all’altra del reparto. La gestione clinica del paziente affetto da Covid non è di per sé clinicamente complessa per noi infermieri, perché quasi tutti i pazienti manifestavano gli stessi sintomi, il ché, se non suonasse assurdo, ci rendeva le cose almeno un po’ più facili. Sapevamo cosa dovevamo fare, perché tutti presentavano lo stesso quadro clinico: qualcuno un po’ di più, qualcuno un po’ meno. Nonostante tutto il nostro impegno, alcuni pazienti stavano così male da dover essere trasferiti in rianimazione, ma in mancanza di posti spesso continuavano a non farcela lì con noi. Troppe volte, l’unica cosa che siamo riusciti a fare, è stato cercare di dare dignità e sollievo all’inevitabile. Non credo sia fondamentale descrivere quale agonia abbiano dovuto affrontare i malati e noi con loro: la paura nei loro occhi sarà per molto tempo l’immagine di fondo di quando chiudo i miei. Confesso di rivedere quelle immagini nella mia mente, i pazienti soffocare con le maschere che sparavano l’ossigeno direttamente nei polmoni. Ho scoperto che è normale per quello che è successo, è assurdo, ma anche normale. La mente ha bisogno di tempo per analizzare e metabolizzare esperienze simili e i continui flashback non sono che la dimostrazione di questo. Parte del nostro lavoro era quella di controllare che i pazienti non si strappassero via le maschere dal viso e di convincerli che tutto sarebbe andato bene e che sarebbero stati meglio a breve, solo un po’ d’impegno ancora. Raccontare queste impressioni è difficile ma doveroso, perché non c’è altro modo per rendere giustizia a quelle vite soffocate da un virus terribile, che ha colpito nel respiro, e quasi mai nella lucidità. Una crudeltà inconcepibile. Non si può mettere in discussione il fatto che il Covid sia stato reale e documentarlo è un nostro dovere. Era un sollievo quando qualcuno guariva, ma era altrettanto straziante quando invece non accadeva: le piccole ulcere sulle labbra e in bocca, curate tutti i giorni dai colleghi, comprovavano che il paziente era in ventilazione da settimane e che nel migliore dei casi non sarebbe né peggiorato né migliorato. Ne discutevamo spesso con loro, rimanevano vigili, fino all’ultimo, senza un attimo di tregua per loro, che capivano cosa gli stava succedendo, e per noi, che cercavamo in tutti i modi di convincerli a continuare a lottare, sebbene sapessimo cosa gli sarebbe successo. Dal nostro canto, abbiamo fatto tutto quello che umanamente era possibile fare. Adrenalina ed eccitamento ci esortavano a non desistere un attimo, a non mollare mai, giovani o anziani che fossero. Dentro quelle tute, quelle maschere e quelle visiere, eravamo dei perfetti soldati, reclutati in una guerra che non sapevamo combattere fino al giorno prima, ma che abbiamo combattuto come se fosse la cosa più consueta al mondo. Non saremo più gli stessi, è vero, tornare velocemente alla normalità sarà difficile dopo quello che abbiamo visto. Per qualche mese siamo stati protagonisti della Storia: come chi ha combattuto in guerra nel secolo scorso o chi ha partecipato alle leggendarie rivoluzioni del passato. Non sappiamo se questo ci ha reso migliori o peggiori, forse un po’ più stanchi e consapevoli, ma di sicuro, questa emergenza ci ha resi pronti. Le nostre spalle sono più larghe e forti, più salde e sicure. Alla prossima scossa di terremoto non staremo più a guardare imbelli, ma sapremo cosa fare e urleremo in tempo: “Tsunami!”.

Autore: Dario Tobruk (FacebookTwitter)

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