Responsabilità sanitaria: sì alle linee guida come scriminante, purché aderenti al caso concreto.

Redazione 20/06/17

Riceviamo e pubblichiamo la nota ADI sull’uso delle linee guida come scriminante nei processi giudiziari e dell’effettiva applicazione della Legge Gelli, la nota è il Commento a Cassazione sez. IV penale, 7 giugno 2017, n. 28187 redatta dal Dott. Carlo Pisaniello.

Responsabilità sanitaria:
sì alle linee guida come scriminante, purché aderenti al caso concreto.
Qualche chiarificazione in merito

 

La Suprema Corte di Cassazione inizia a manifestare le proprie remore sulla tanto pubblicizzata riforma Gelli, l’interpretazione della norma richiede che comunque ci sia l’aderenza al caso concreto e non solo il richiamare, come si trattasse di uno scudo protettivo, l’aderenza alle linee guida per essere scagionati da ogni forma di responsabilità.

Il GIP del tribunale di Pistoia dichiara il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste nei confronti di un medico psichiatra responsabile dell’ufficio di salute mentale della asl che, avendo colposamente posto in essere, ai sensi dell’art. 590 cod. Pen., una serie di condotte attive ed omissive, come condizioni necessarie perché un suo paziente, ricoverato presso la struttura residenziale a bassa soglia assistenziale, ponesse in essere il gesto omicidiario sferrando numerosi colpi al capo e al collo di un altro paziente ricoverato presso la stessa struttura residenziale con un’ascia lasciata incustodita presso la richiamata struttura.

Il Gip ripercorre dettagliatamente il vissuto clinico del paziente dal momento del ricovero sino alla notte dell’omicidio osservando che, le scelte dello psichiatra in ordine al passaggio dal regime sorveglianza intermedia a quello di semilibertà, oltre che alla riduzione del trattamento farmacologico, appaiono immuni da errori di diagnosi.
Ma il giudice considera che, a posteriori, le scelte effettuate dall’odierno imputato sono risultate oggettivamente inadeguate a contenere l’aggressività dell’omicida, soggetto che sedici anni prima aveva commesso un altro omicidio.

Inoltre nella sentenza si rileva che dalla condotta dell’imputato non sembrano emergere profili di rimproverabilità colposa e che l’azione dello psichiatra non può considerarsi come causa scatenante dell’azione omicidiaria.

Avverso alla sentenza propone ricorso per Cassazione la parte civile, costituitasi per mezzo del proprio difensore.
La parte ricorrente si sofferma sulla storia clinica del paziente caratterizzata da abuso di sostanze stupefacenti, esplosioni di rabbia e un tentativo di suicidio dal quale riportò lesioni gravi.
Richiama inoltre le modalità efferate con le quali aveva ucciso nel 1998 la propria fidanzata, sulla base delle dichiarazioni rese dallo stesso omicida al P.M.
Per tali fatti, la parte ricorrente con i motivi di ricorso chiede di rivalutare la responsabilità colposa dello psichiatra nel procedimento, rilevando l’inosservanza della legge penale con riferimento al punto della sentenza in cui viene esclusa la configurabilità del concorso colposo nel reato doloso, osservando che la giurisprudenza ha chiarito che risulta configurabile tale ipotesi.

Con altro motivo di ricorso, denuncia il vizio di motivazione in ordine alla rilevanza della riduzione della terapia farmacologia, sottolineando che dal quadro clinico del soggetto emergevano plurimi indici premonitori al riguardo, rilevando che la scelta farmacologica dettata dallo psichiatra è stata fatta dopo aver estromesso altri professionisti che erano di contrario avviso.

La corte ritiene il ricorso fondato ai sensi dei seguenti punti.
Le considerazioni di seguito svolte, conducono all’annullamento della sentenza impugnata, vulnerata da aporie argomentative del tribunale di Pistoia, al quale si rinvia per ulteriore corso.

La giurisprudenza di legittimità, rispetto alla configurabilità del concorso colposo nel delitto doloso, si è più volte espressa, ritenendo che il concorso colposo risulta configurabile anche rispetto al delitto colposo, purché il reato del partecipe sia previsto dalla legge anche nella forma colposa e nella condotta siano effettivamente presenti tutti gli elementi che caratterizzano la colpa. In tale ambito ricostruttivo si è chiarito che la regola cautelare violata deve essere necessariamente diretta a prevenire anche il rischio dell’atto doloso del terzo e che quest’ultimo deve risultare prevedibile per l’agente che risponde a titolo di colpa.
Nel diritto vivente risulta astrattamente configurabile il concorso colposo nel delitto doloso, pertanto la valutazione prognostica circa il materiale di prova raccolto, tale da giustificare il rinvio a giudizio dell’imputato, dovrà essere effettuata tenendo concretamente presente tale aspetto interpretativo.

In merito alla responsabilità professionale dello psichiatra si è più volte espressa la Giurisprudenza, anche in relazione alla posizione di garanzia che grava sul medico psichiatra e sul contenuto dei conseguenti obblighi di protezione e controllo rispetto alle condotte autolesive o lesive del paziente verso terzi.
La corte in questi casi ha confermato la responsabilità del primario e dei medici del reparto di psichiatria di un ospedale pubblico per omicidio colposo in danno di un paziente che, ricoveratosi volontariamente con divieto di uscita senza autorizzazione, si era allontanato dal reparto dichiarando di volersi recare al piano superiore e giunto li si era defenestrato suicidandosi.
In altre circostanze la corte di appello ha ritenuto configurabile il concorso colposo nel delitto doloso proprio in riferimento al caso del medico psichiatra il quale, sospendendo il trattamento farmacologico cui era sottoposto il paziente al ricovero in comunità, ne aveva poi determinato lo scompenso psichico ritenuto la causa della crisi nel corso della quale lo stesso paziente , poi ritenuto non imputabile, aveva aggredito e ucciso uno degli operatori che lo accudivano (sez. 4, n. 10795 del 14 novembre 2007).

Giova ricordare che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’obbligo giuridico che grava sullo psichiatra risulta potenzialmente qualificabile al contempo come obbligo di controllo, equiparando il paziente a una fonte di pericolo, rispetto alla quale il garante avrebbe il dovere di neutralizzare gli effetti lesivi verso terzi e di protezione del paziente medesimo, soggetto debole, da comportamenti pregiudizievoli per se stesso (sez. 4, n. 14766 del 4 febbraio 2016).

Tuttavia va ribadito l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, laddove evidenzia che la moderna psichiatria addita patologie che, non di rado, sono difficilmente controllabili in maniera completa, anche in ragione dell’abbandono di deprecate pratiche di isolamento e segregazione del paziente psicotico a favore di terapie rispettose della dignità umana che, tuttavia, non eliminano del tutto il rischio di condotte inconsulte; in tali casi il giudice deve verificare, con valutazioni ex ante, l’adeguatezza delle pratiche terapeutiche poste in essere dal sanitario per governare il rischio specifico pure a fronte di esito infausto sortito dalle stesse.
In tale percorso valutativo vengono in rilievo le raccomandazioni contenute nelle linee guida in grado di offrire indicazioni e punti di riferimento, tanto per il medico nel momento in cui è chiamato ad effettuare la scelta terapeutica adeguata al caso di specie, quanto per il giudice che deve procedere alle valutazioni della condotta.
Le linee guida offrono al giudice un parametro di riferimento che garantisce maggiore tassatività nella valutazione di eventuali profili di colpa del sanitario; del resto alle linee guida affida uno speciale e riconosciuto ruolo l’art. 3, D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito in L. n. 189 del 2012 (c.d. legge Balduzzi) che, pur se essendo stato abrogato, trova ancora applicazione ai sensi dell’art. 2 cod. pen. essendo più favorevole rispetto alla normativa sopravvenuta.

Rispetto al tema della responsabilità del sanitario il quadro normativo è stato interessato da plurimi interventi da parte del legislatore nell’arco degli ultimi 10 anni, la questione è altamente problematica ed è necessario ripercorrere anche le elaborazioni giurisprudenziali degli ultimi anni rispetto al tema di interesse.
Sin dagli anni ’80 la giurisprudenza limitava i casi di responsabilità penale del medico (ed in generale del sanitario) rispetto ai delitti di omicidio colposo e di lesioni colpose, alle sole ipotesi di colpa grave, in conformità di quanto previsto, in tema di responsabilità civile, dall’art. 2236 cod. civ. in riferimento alle prestazioni professionali comportanti la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà. Il limite della colpa grave veniva solitamente riferito alla sola imperizia (in violazione delle legis artis) mentre rispetto alla negligenza e all’imprudenza, si riteneva che la valutazione dell’attività del sanitario dovesse essere improntata ai criteri di normale severità.

Sul punto anche la Corte Costituzionale chiamata a stabilire se tale orientamento fosse compatibile con il principio di uguaglianza, ha affermato che la richiamata deroga della disciplina generale della responsabilità penale per colpa, nei casi previsti dalla disposizione di cui all’art. 2236 cod. civ. aveva un adeguata ragione di essere, dovendo essere applicata solo ai casi di speciale difficoltà, ed essendo contenuta entro il circoscritto tema della perizia (C. Cost. n. 166 del 1973).
Tale indirizzo è stato però messo in discussione dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha negato l’applicabilità del principio di cui all’art. 2236 cod. civ. al diritto penale, affermando che nella materia devono trovare esclusivo accoglimento gli ordinari criteri di valutazione della colpa di cui all’art. 43 cod. pen., secondo il parametro consueto dell’homo eiusdem professionis et condicionis, arricchito dalle eventuali maggiori conoscenze dell’agente concreto.
La giurisprudenza successiva ha quindi costantemente rilevato che nella valutazione in ambito penale della colpa medica non trova applicazione la richiamata disciplina di favore in riferimento alla quale, l’art. 2236 cod. civ. recita che, la graduazione della colpa assume eventuale rilievo solo ai fini della determinazione della pena.
La distinzione tra culpa levis e culpa lata ha acquistato una nuova considerazione alla luce della disposizione in tema di responsabilità del sanitario contenuta all’art. 3, comma 1, L. n. 189/12 c.d. legge Balduzzi, ove era tra l’altro stabilito che; ”l’esercente a professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”.
Disposizione oggi abrogata come vedremo.

Secondo la corte regolatrice la citata novella del 2012 aveva escluso la rilevanza penale della colpa lieve, rispetto alle condotte lesive coerenti con le linee guida o le pratiche mediche virtuose accreditate dalla comunità scientifica. In particolare si era evidenziato che la norma aveva dato luogo ad un abolitio criminis parziale degli artt. 589 e 590 del cod. pen. avendo ristretto l’area penalmente rilevante individuata dalle predette norme incriminatici, alla sola colpa grave. La modifica normativa aveva riportato quindi all’attualità i concetti di colpa lieve e colpa grave destinati ad intrecciarsi con l’ulteriore questione posta dalla novella del 2012, afferente all’impiego in sede giudiziaria delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.

Il tema della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, per i reati di omicidio colposo e lesioni colpose, è stato oggetto di un’ulteriore novellazione normativa, con la quale il legislatore ha posto mano nuovamente alla materia della responsabilità sanitaria, anche in ambito penale. Il riferimento è alla legge 8 marzo 2017, n. 24, c.d. legge Gelli-Bianco.
Ai fini di interesse viene in rilievo l’art. 6 della citata legge che ha introdotto l’art. 590–sexies cod. pen. rubricato come “responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario”.
L’articolo in parola stabilisce che: “Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.
Il secondo comma dell’art. 6, citato, dispone l’abrogazione dell’art. 3 del D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni della legge n. 189, 2012. La novella manifesta la volontà di una rifondazione della disciplina penale della responsabilità in ordine ai reati di omicidio e lesioni colpose in ambito sanitario come si desume dalla creazione di una nuova incriminazione.

Tuttavia la lettura della nuova norma suscita alti dubbi interpretativi a prima vista irrisolvibili, messi subito in luce dai numerosi studiosi che si sono cimentati con la riforma. Si mostrano infatti incongruenze interne tanto radicali da mettere in forse la stessa razionale praticabilità della riforma in ambito applicativo; ancor prima si ha difficoltà a cogliere la ratio della novella.

Si legge che non è punibile l’agente che rispetta le linee guida accreditate nei modi che si vedranno di seguito, nei casi in cui esse risultino adeguate alla specificità del caso concreto. L’enunciato, come anche più volte ribadito, attinge alla sfera dell’ovvietà; non si comprende infatti come potrebbe essere chiamato a rispondere di un evento lesivo l’autore che, avendo rispettato le raccomandazioni espresse da linee guida qualificate e pertinenti avendole in concreto attualizzate in modo che risultino adeguate in rapporto alle contingenze del caso concreto, è evidentemente immune da colpa, nulla di nuovo quindi.

La disciplina risulta però contraddittoria quando l’ovvio enunciato di cui sopra si ponga in connessione con la prima parte del testo normativo; si legge infatti che il novum trova applicazione quando l’evento si è verificato a causa di imperizia. L’incompatibilità logica è lampante: si è in colpa da imperizia e al contempo non lo si è, visto che le codificate legis artis sono state rispettate ed applicate in modo pertinente ed appropriato all’esito di un giudizio maturato alla stregua di tutte le contingenze fattuali rilevabili in ciascuna fattispecie.

La contraddizione potrebbe essere risolta sul piano dell’interpretazione letterale, ipotizzando che il legislatore abbia voluto escludere la punibilità anche nei confronti del sanitario che, pur avendo cagionato un evento lesivo a causa di un comportamento rimproverabile per imperizia, in qualche momento della relazione terapeutica abbia comunque applicato direttive qualificate, anche quando queste siano estranee al momento esatto in cui l’imperizia lesiva si realizza.

Si può fare un esempio scaturente dalla prassi: un chirurgo imposta ed esegue l’asportazione di una neoplasia addominale nel rispetto delle linee guida, tuttavia nel momento esecutivo, per errore tanto enorme quanto drammatico, invece di recidere la neoformazione, recide l’arteria con effetto letale. In un caso del genere, a lume di ragione, la condotta del sanitario non sarebbe punibile per il solo fatto che ha rispettato le linee guida. Una soluzione del genere sarebbe irragionevole, vulnerebbe il diritto alla salute del paziente e quindi l’art. 32 Cost. si porrebbe in contrasto con i fondanti principi di responsabilità penale. Tali ragioni rendono impraticabile la letterale soluzione interpretativa di cui si discute e devono essere analiticamente chiarite.

Il diritto penale è ad oggi profondamente permeato e modellato dal principio costituzionale di colpevolezza; per ciò che riguarda la colpa, si è chiarito che si tratta di una colpevolezza che non si estende a tutti gli eventi derivanti dalla violazione di una prescrizione, ma è limitata ai risultati che la regola mira a prevenire. Tali ineludibili coordinate della colpa si comportano come sfumature diverse in relazione ai diversi contesti ed alle differenti caratteristiche delle regole imposte. Facendo un esempio spicciolo, si immagini un conducente di un veicolo che, attraversando un incrocio con il semaforo rosso, determini così un incidente mortale; non potrà certo invocare l’esonero dalle responsabilità per il solo fatto che ha rispettato i limiti di velocità vigenti nel codice.
Per altro una norma che prevedesse una tale disciplina si esporrebbe di certo a censure evidenti sul piano della razionalità, della coerenza con le fondamentali esigenze di difesa della vita e della salute, del rispetto del principio di colpevolezza.

Pertanto i principi enunciati trovano applicazione con i dovuti adattamenti del caso anche al contesto in esame, in cui le regole si presentano come raccomandazioni da modellare al caso concreto.
Qualche chiarificazione in merito alle linee guida
In merito alle linee guida, è necessaria qualche chiarificazione.
La Corte ha più volte avuto modo di chiarire che le linee guida costituiscono sapere scientifico e tecnologico codificato e reso disponibile in forma condensata, in modo da costituire una guida per orientare più facilmente verso le decisioni terapeutiche, tentando di uniformare le determinazioni e di sottrarle al libero arbitrio soggettivo del terapeuta.

Dunque le linee guida hanno contenuto orientativo ed esprimono raccomandazioni, e vanno distinte da strumenti decisamente più pregnanti e prescrittivi come i protocolli e le check list, essendo questi un‘analitica e automatica successione di adempimenti.
Ma chiarito il ruolo delle linee guida, queste non esauriscono la disciplina dell’ars medica; da un lato vi sono aspetti della medicina che non possono essere per nulla regolate da tali direttive, dall’altro, pur se in determinati contesti esse sono rispettate, può accadere che si tratti di compiere gesti, di agire con condotte, di assumere decisioni, che le linee guida in questione non prendono in considerazione, come precedentemente evidenziato nell’esempio del chirurgo. In tali situazioni infatti l’osservanza delle linee guida costituisce un aspetto irrilevante ai fini della spiegazione dell’evento e della analisi condotta ai fini del giudizio di rimproverabilità colposa. Razionalità e colpevolezza creano un alto argine contro l’ipotesi che voglia in qualunque modo concedere sempre e comunque l’impunità a chi si trovi in una situazione di verificata colpa per imperizia.

Anche in ragione del fatto che le incriminazioni di cui si discute costituiscono un primario e riconosciuto strumento di tutela dei beni della vita e della salute.

E’ pur vero che l’ambito terapeutico è un contesto che giustifica, in ambito normativo e interpretativo, una disciplina particolare nel giudizio di responsabilità, anche in chiave limitativa. A testimonianza sono l’art. 2236 cod. civ., la richiamata sentenza costituzionale n. 166 del 1973, la giurisprudenza di legittimità, oltre che la richiamata normativa di cui al D.L. 13 settembre 2012 n. 189 c.d. legge Balduzzi.
Esigenze nate per scoraggiare la cosiddetta medicina difensiva.
Dagli artt. 589, 42 e 43 c.p. e dall’art. 2236 cod. civ. è ricavabile una particolare disciplina in tema di responsabilità degli esercenti una professione intellettuale, finalizzata soprattutto a fronteggiare due opposte esigenze: non mortificare l’iniziativa del professionista con timore di ingiuste rappresaglie in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso. Tale regime però, è stato ritenuto applicabile solo ai casi in cui la prestazione comporti la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, riguardando per altro l’ambito della perizia e non della diligenza e della prudenza.

Di contro, la soluzione interpretativa sino a qui esaminata, implicando un radicale esonero da responsabilità, è priva di riscontri in altre esperienze nazionali. Rischiando di vulnerare l’art. 32 della Cost. implicando un depotenziamento della tutela della salute in contrasto con le stesse finalità della legge.

In tema di responsabilità civile, la nuova disciplina dell’art. 7, comma 3 della L. n. 24/17 c.d. legge Gelli, recita che “….Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’articolo 5 della presente legge e dell’articolo 590-sexies del codice penale, introdotto dall’articolo 6 della presente legge”.
Quindi per l’effetto di tale richiamo della disciplina civile a quella penale, il solo fatto dell’osservanza di una linea guida, non solo escluderebbe la responsabilità penale, ma limiterebbe pure la quantificazione del danno. Insomma neppure in ambito civilistico consentirebbe alla vittima di ottenere protezione e ristoro commisurati all’entità del pregiudizio subito e l’esonero dalle responsabilità si amplierebbe ulteriormente. Anche la legge n. 189/12 – legge Balduzzi – recava una norma analoga, ma nell’ambito di quella disciplina il rinvio alla materia penale aveva implicazioni ben più ristrette e ragionevoli: l’applicabilità, in ambito risarcitorio dei criteri per la graduazione della colpa, alla stessa stregua della distinzione fondamentale tra colpa lieve e colpa grave.

La soluzione che qui si critica, colliderebbe con l’istanza di tutela della salute che costituisce il manifesto della nuova normativa.

L’impraticabilità dell’interpretazione sino a qui esaminata induce questa Corte a percorrere un itinerario alternativo. Le finalità della nuova legge così per come espresse: sicurezza delle cure “parte costitutiva del diritto della salute”, corretta gestione del rischio clinico, utilizzo appropriato delle risorse.
Funzionale a tali finalità è l’art. 5, che reca un vero e proprio statuto delle modalità di esercizio delle professioni sanitarie: “Gli esercenti le professioni sanitarie… si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e da aggiornare con cadenza biennale. In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali”.
Tale assunto da un lato mostra la chiara consapevolezza che si tratta di direttive di massima che devono confrontarsi con il caso concreto, adattandovisi; dall’altro emerge la decisa volontà di costruire un sistema istituzionale, pubblicistico, di regolazione dell’attività sanitaria, che assicuri il funzionamento in modo uniforme, appropriato, conforme alle evidenze scientifiche controllate, superando di fatto le incertezze manifestate dalla precedente riforma del sistema L. n. 189/12 a proposito dei criteri per l’individuazione delle direttive scientificamente qualificate.

L’intento è stornare il pericolo delle degenerazioni dovute alle linee guida interessate o non scientificamente fondate, favorendo l’uniforme applicazione di direttive accreditate e virtuose. La normativa assicura all’istituzione sanitaria il governo dell’attività medica, ma ha altrettanto impatto sul professionista, che è tenuto ad attenersi alle raccomandazioni, sia pure con gli adattamenti di ciascuna fattispecie.

La normativa si riferisce ad eventi che costituiscono espressione di condotte governate da linee guida accreditate nei modi che si sono sopra riferiti. Perché sia esclusa la responsabilità, si richiede altresì, che le linee guida siano appropriate rispetto al caso concreto, e cioè che non vi siano ragioni dovute solitamente alle comorbilità che suggeriscono di discostarsene radicalmente.
Insomma quando le linee guida non sono appropriate e vanno quindi disattese, l’art. 590-sexies c.p. non viene in rilievo e trova applicazione la disciplina generale prevista dagli artt. 43, 589, 590 cod. pen..

L’espressione a “causa di imperizia” di cui è stata mostrata la potenziale incoerenza con la restante parte dell’art. 590-sexies c.p. è una scelta sovrana del legislatore ma con espressione lessicalmente infelice, ritenendo di limitare l’innovazione alle sole situazioni astrattamente riconducibili alla sfera dell’imperizia, cioè al profilo di colpa che coinvolge in via ipotetica le legis artis.
Si sono volute troncare le discussioni e le incertezze verificatesi nella prassi, anche quella di legittimità, in ordine all’applicazione della L. 189/12, alle linee guida la cui inosservanza conduce al giudizio non di insipienza tecnico scientifica, ma di trascuratezza e quindi negligenza.
In riguardo la stessa Corte, dapprima contraria, aveva in ultimo ritenuto che la legge n. 189/12 potesse riferirsi anche ad aree diverse da quelle dell’imperizia (Cass. sez. 4, n. 23283 del 11 maggio 2016).
La nuova norma tronca alla radice i dubbi mettendo in chiaro che l’art. 590-sexies si applica solo quando sia stata elevata, o possa esserlo, imputazione di colpa per imperizia.
Sono stati anche enunciati i pericoli connessi all’utilizzazione di raccomandazioni provenienti da soggetti non indipendenti o non sufficientemente qualificati. In tale quadro risalta l’importante progetto della codificazione e dell’istituzionalizzazione, nonché del continuo adeguamento delle direttive a tutela della sicurezza delle cure, e dei giudizi a ciò pertinenti.

Va però aggiunto che il catalogo delle linee guida non può esaurire del tutto i parametri di valutazione, è naturale infatti che, in qualche caso particolare, il terapeuta possa invocare come metro di giudizio, raccomandazioni o studi scientifici non ancora recepiti dal sistema normativo di evidenza pubblica delle linee guida di cui al richiamato art. 5. Si tratta di un principio consolidato nella scienza penalistica, le prescrizioni cautelari ufficiali possono essere affiancate da regole non codificate ma di maggiore efficienza nella prospettiva dell’ottimale gestione del rischio.
E’ tuttavia ragionevole prevedere ed auspicare che il catalogo delle linee guida accreditate sarà rapidamente attuato, in conformità all’alto interesse ed alla centralità del tema nel quadro della riforma voluta dalla legge.

L’abrogazione della legge n. 189/12, implica la reviviscenza della previgente normativa, più severa, che non consentiva distinzioni connesse al grado della colpa. Infatti la novella della L. 24/17 non contiene alcun riferimento alla gravità della colpa, naturalmente ai sensi dell’art. 2, cod. pen. il nuovo regime si applica solo ai fatti commessi in epoca successiva alla riforma.

Per i fatti antecedenti alla riforma, come quello in esame, sempre in applicazione dell’art. 2 del cod. pen. , può trovare applicazione quando pertinente, la ridetta normativa L. n. 189/12 che appare più favorevole con riguardo alla limitazione della responsabilità ai soli casi di colpa grave.

Di conseguenza il Giudice potrà prendere in considerazione le problematiche afferenti alle linee guida, che come sopra esposto hanno pregante rilievo nell’ambito del delicato tema della responsabilità dello psichiatra per i fatti commessi da soggetti in cura.

Nel recente passato la Corte si è più volte occupata della disciplina dell’applicabilità nell’ambito penale dell’art. 2236 cod. civ., pervenendo alla conclusione che tale norma, sebbene non direttamente esportabile nel diritto penale, sia comunque espressione di un principio di razionalità, dove situazioni tecnico scientifiche nuove, complesse o influenzate o rese più difficoltose dall’urgenza implicano un diverso e più favorevole metro di valutazione. Il principio civilistico di cui all’art. 2236 cod. civ. che assegna rilevanza soltanto alla colpa grave, può trovare applicazione in ambito penalistico come regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà. Tale giurisprudenza ha ancora attualità e si confida potrà orientare il giudizio in un modo che tenga conto delle riconosciute peculiarità delle professioni sanitarie.

Per tutte le valutazioni svolte, si impone l’annullamento della sentenza impugnata con il rinvio alla corte di Pistoia per un nuovo esame

Riassumendo

In sintesi la quarta Sezione ha reso importanti principi in tema di responsabilità penale in ambito sanitario, affermando tra l’altro che il nuovo quadro disciplinare dettato dall’art. 590–sexies cod. pen. (disposizione introdotta dalla legge n. 24 del 2017) non trova applicazione:
– negli ambiti che, per qualunque ragione, non siano governati da linee guida;
– nelle situazioni concrete in cui tali raccomandazioni debbano essere radicalmente disattese per via delle peculiarità della condizione del paziente o per qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate;
– nelle condotte che, sebbene poste in essere dell’ambito di approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti e appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo, come nel caso di errore nell’esecuzione materiale di atto chirurgico pur correttamente impostato secondo le relative linee guida.

Ha inoltre affermato che per i fatti anteriori può trovare ancora applicazione, ai sensi dell’art. 2 cod. pen., la disposizione di cui all’abrogato art. 3, comma 1, della legge n. 189 del 2012, che aveva escluso la rilevanza penale delle condotte lesive connotate da colpa lieve, nei contesti regolati da linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.

Dott. Carlo Pisaniello

Redazione

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