Si configura il reato di rifiuto di atti d’ufficio (art. 328, comma 1, c.p.) se il medico di guardia non visita il paziente soprattutto quando l’infermiere lo ha più volte contattato.
Sentenza senz’altro molto interessante che mette in luce quello che molto spesso accade in molte strutture ospedaliere pubbliche e private, ossia, il fatto che il personale infermieristico presente in reparto chiami insistentemente il m.d.g. (medico di guardia) per richiedere la sua presenza in reparto in conseguenza di sospetti clinici su un pazienti che fanno sorgere il dubbio che la situazione stia evolvendo verso un peggioramento, molto spesso però tali richieste vengono ritenute dal m.d.g. come eccessive e inutili, capaci solo di ingenerare preoccupazione, di talché, l’essere disturbati perché il paziente ha dolore o lamenta disturbi aspecifici viene ritenuta solo una fastidiosa ed inutile perdita di tempo; ma che nel caso di specie, i sospetti dell’infermiere e del parente si sono dimostrati veritieri portando la situazione alle estreme conseguenze con la sopraggiunta morte del paziente.
Di converso però, molto spesso, i sospetti clinici che mettono in allarme l’infermiere si rivelano esagerati e impropri, ed ecco perché onde evitare inutili discussioni e controversie, riteniamo come associazione, doverosa la presenza costante del m.d.g. in reparto, contrapposta all’inopportuna e vetusta abitudine di molti medici di guardia di rimanere nella propria stanza in attesa della chiamata dell’infermiere del reparto. D’altronde quando si parla di “guardia” non deve mai intendersi la differenziazione tra la c.d. guardia attiva e guardia non attiva, poiché giuridicamente tale distinzione è inesistente ed irrilevante ai fini della responsabilità medica, la guardia presso la struttura sanitaria è unica, ed è sempre attiva, diversamente deve ipotizzarsi una guardia non attiva se ci si vuole riferirsi all’istituto della pronta disponibilità, essendo esso stesso per definizione inattivo fino alla chiamata del centralino dell’ospedale per intervenire presso la struttura per eseguire interventi chirurgici differibili.
Il fatto in esame è stato trattato dalla Suprema Corte di Cassazione Penale con la sentenza n. 21631 del 4 maggio 17.
La Corte di Cassazione ha affermato che, ai fini dell’applicabilità dell’art. 328, comma 1, c.p. – omissione di atti di ufficio – il giudice di merito ben può controllare l’esercizio della discrezionalità tecnica da parte del medico e concludere che esso trasmoda in arbitrio, se tale esercizio non risulta sorretto da un minimo di ragionevolezza ricavabile dal contesto e dai protocolli medici per esso richiamabili.
Pertanto, ove sussistano condizioni di urgenza ed indifferibilità dell’atto sanitario richiesto dal personale infermieristico, il medico ha comunque l’obbligo di recarsi immediatamente a visitare il paziente al fine di valutare direttamente la situazione.
Ma veniamo al fatto; la Corte di appello di Firenze, adita dalle parti civili e dall’imputato, ha modificate le statuizioni rispetto al risarcimento del danno determinato in Euro diecimila ciascuna, ha confermato la condanna del m.d.g. alla pena di mesi quattro di reclusione, per il reato di cui all’art. 328 cod. pen.
Si e’ accertato che il dottor F. medico di guardia, in servizio notturno nell’orario 20.00/7.00 presso la Casa di Cura (OMISSIS), è stato più volte richiesto, a partire dalle ore 20.00, dal personale infermieristico presso il reparto per un atto dovuto del suo ufficio (visitare un paziente) che per ragioni di sanita’ doveva essere compiuto senza ritardo.
Il m.d.g. rifiutava di recarsi al posto letto del paziente D ivi ricoverato con diagnosi di febbre e disidratazione, ed affetto da varie patologie tra le quali cardiopatia ipertensiva, diabete, sindrome ansioso-depressiva, decadimento cognitivo, fino all’intervenuto decesso di questi, avvenuto alle ore 23.55.
La Corte di appello ha confermato la dichiarazione di responsabilita’ del dott. F. sulla scorta delle convergenti dichiarazioni rese dal figlio del paziente, D.A., dall’infermiera F.A. e del contenuto della documentazione sequestrata nella quale sono registrate le condizioni del paziente, nell’orario in cui il dott. F. era in servizio e presente in Clinica, in una stanza adiacente a quella di degenza del D., condizioni passate da uno stato di agitazione, a uno stato di letargia e, infine, alla morte.
I testi in particolare, hanno riferito che il dott. F., tanto sollecitato dai familiari e dall’infermiera che gli rappresentava le condizioni del paziente, non si era mai recato al letto dello stesso, e si era limitato a prescrivere, con direttive impartite all’infermiera, prima un farmaco tranquillante e, poi, dell’ossigeno, per la riscontrata crisi respiratoria.
In opposizione alla sentenza di condanna propone ricorso l’imputato, con motivi affidati al difensore di fiducia che denuncia:
- vizio di violazione di legge, con riguardo alla interpretazione dell’art. 328 cod. pen. “poiche’ nel caso in esame, vertendosi in ipotesi di paziente ricoverato presso una struttura ospedaliera e affidato al personale infermieristico dedito a monitorarne le condizioni fisiche ed i parametri vitali, non e’ configurabile il contestato reato che richiede l’indebito rifiuto del compimento dell’atto. Rileva che, fin dalla contestazione, si assiste alla confusione fra la fattispecie descritta al comma 1 e quella di cui all’art. 328 c.p., comma 2, poiche’ accanto al rifiuto di recarsi al posto letto del paziente per la visita si contesta anche una generica omissione e ad una valutazione della condotta del ricorrente inquinata dall’aleggiare della implicita contestazione di omicidio colposo per omissione”;
- mancanza, contraddittorieta’ e manifesta illogicita’ della motivazione della sentenza impugnata “che non ha preso in esame le censure, formulate con i motivi di appello, avverso la mancata valutazione, fin dal primo grado, delle risultanze istruttorie sui punti”:
- insussistenza dell’urgenza e indifferibilita’ dell’atto richiesto, erroneamente ricostruito sulla scorta dell’exitus del paziente ovvero al momento del ricovero, piuttosto che al momento in cui il ricorrente prendeva servizio, alle ore 20.00, senza alcun confronto critico con le deduzioni svolte dal consulente di parte;
- della conoscenza del quadro clinico da parte del ricorrente alla stregua di una lettura esclusivamente in chiave accusatoria delle dichiarazioni rese dal personale infermieristico travisando, ovvero ignorando, la storia clinica del paziente e l’attivazione dell’imputato nel prescrivere la terapia farmacologica;
- della discrezionalità tecnica esercitata dal ricorrente in relazione alla imprevedibilita’ dell’exitus del paziente, profilo in relazione al quale la Corte fiorentina ha fornito una motivazione apparente, attraverso il richiamo improprio a massime giurisprudenziali e in mancanza di consulenza tecnica;
- della tempistica e modalita’ delle richieste di intervento, sulla valutazione di attendibilita’ della teste (l’infermiera in servizio quella sera) e della letargia del paziente, non risultante dalla cartella clinica;
- dell’allegazione del ricorrente di essere stato, nel frattempo, impegnato in operazioni di ricovero di altro paziente, disattesa dalla Corte di merito sulla scorta del superficiale rilievo che “quattro ore sono troppe per un ricovero” omettendo l’analisi, per sovrapposizione, tra le tempistiche delle richieste di visita e le attivita’ di ricovero;
- dell’elemento psicologico del reato, in relazione al quale la Corte valorizza, contraddittoriamente, la prescrizione di un farmaco e il contatto con i parenti del paziente onde inferirne il dolo della fattispecie di rifiuto contestata.
La Suprema Corte dal canto suo così risponde alle deduzioni della difesa;
Dichiara innanzitutto il ricorso inammissibile per la genericità e manifesta infondatezza dei motivi proposti.
Dichiara inoltre manifestamente infondato il motivo che attacca la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui il ricorrente sostiene che la Corte di appello fiorentina non si sarebbe fatta carico di esaminare i motivi di appello.
Ed invero i giudici di appello hanno, in primo luogo esaminato la ricostruzione in fatto delle vicende accadute a partire dalle ore 20.00 evidenziando la convergenza del resoconto compiuto dal personale infermieristico, in particolare dell’infermiera Fa., e dei congiunti del D., sia sulle condizioni cliniche del paziente – ingravescenti e descritte nella documentazione sanitaria, che per la letargia la Fa. aveva, comunque, riferito al sanitario – sia sul comportamento dell’imputato che, presente in reparto in una stanza vicina a quella di degenza del paziente, non aveva mai accolto le richieste dell’infermiera che ne aveva piu’ volte sollecitato l’intervento.
Ne’ il giudizio di attendibilità dei dichiaranti che del tutto logicamente il giudici di merito hanno desunto dalla convergenza del narrato, è inficiato dalla mancata annotazione sulla cartella clinica del sopraggiunto stato di letargia che l’infermiera aveva prontamente comunicato al. dottor F., che le aveva infatti prescritto di somministrare al paziente l’ossigeno, prescrizione che, al pari di quella del Talofen, non era stata preceduta dalla visita del paziente.
Né sono ravvisabili contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui i giudici di appello hanno ritenuto non provata la circostanza che il dottor F. fosse impegnato in altra visita poiché, indimostrata la indifferibilità e urgenza di tale impegno, la Corte ha rilevato che le contemporanee attività in favore di altro paziente non avevano tenuto impegnato il dottor F. per tutta la durata del servizio, fino alle ore 23.55, quando veniva registrato il decesso del paziente.
Ad analoga conclusione di manifesta infondatezza delle motivazioni difensive deve pervenirsi con riguardo alle ulteriori censure di cui ai punti succitati e sulla sussistenza dell’elemento psicologico del reato, che rinviano la scelta di non effettuare la visita del degente da parte dell’imputato, alla discrezionalità tecnica del sanitario a fronte della mancanza di condizioni di indifferibilità ed urgenza che imponessero la visita del degente.
Nelle sentenze di merito, e’ stato ben evidenziato che il dottor F. era a conoscenza della storia clinica del paziente, illustrata nella cartella clinica, e della complessità e pluralità di patologie che, dopo le dimissioni dal presidio ospedaliero pubblico, ne avevano comportato il ricovero nella Casa di cura per la prosecuzione della terapia precedentemente impostata nella struttura pubblica.
Le condizioni del paziente, a prescindere dall’exitus finale, venivano inoltre rappresentate più volte al dottor F. dall’infermiera Fa. che, ripetutamente, gli sollecitava un suo intervento per fronteggiare dapprima lo stato di agitazione e poi lo stato di letargia che vi era subentrato.
Ebbene, a fronte di tali evenienze, sopraggiunte al ricovero e innestate su una situazione complessa, il dottor. F. non si era mai recato al letto del paziente ma si è limitato a prescrivere la somministrazione di un tranquillante, prescrizione che aveva poi revocato a fronte dell’opposizione del figlio del paziente stesso e non si comprende, sul piano della ragionevolezza prima e dei protocolli medici poi, quale discrezionalità tecnica possa avere sorretto la decisione del dottor F. nella sua opzione, tale non potendo certo essere l’opposizione di un congiunto del paziente per quella terapia.
Se è vero, poi, che non è ravvisabile alcun nesso causale tra la condotta tenuta e il decesso del paziente è altrettanto accertato che le già serie condizioni di salute nelle quali il D. versava al momento del ricovero avevano subito nelle ore serali un peggioramento, prontamente segnalato dal personale infermieristico al dottor F., peggioramento che questi, con il comportamento tenuto, ometteva di constatare e che, nel volgere di poche ore, conduceva il paziente a morte.
“Va dunque ribadito che, ai fini dell’applicabilita’ dell’art. 328 c.p.p., comma 1, il giudice di merito ben può controllare l’esercizio della discrezionalità tecnica da parte del sanitario e concludere che esso trasmoda in arbitrio, se tale esercizio non risulta sorretto da un minimo di ragionevolezza ricavabile dal contesto e dai protocolli medici per esso richiamabili”.
Si è, dunque, legittimamente ritenuto dai giudici del merito che, pur in presenza di condizioni difficili nelle quali il paziente versava già al momento del ricovero note al sanitario attraverso la documentazione sanitaria, il comportamento del dottor F. ha integrato il rifiuto di atti di ufficio poiché esula da ogni preteso esercizio della discrezionalità il fatto che il ricorrente non fosse intervenuto per una visita diretta dopo che il personale infermieristico aveva segnalato la progressiva ingravescenza, fino alla letargia, delle condizioni di salute del ricoverato.
Neppure la riscontrata “letargia” del paziente, situazione di urgenza cosi evidente da escludere ogni margine di discrezionalità ha indotto il dottor F. a verificare le condizioni di salute del paziente, essendosi limitato a prescrivere la somministrazione di ossigeno, poiché è pacifico che egli si recò nella stanza di degenza solo a decesso avvenuto.
“Pienamente sussistente, alla luce delle informazioni che l’infermiera e i congiunti del ricoverato veicolavano al dottor F., è anche l’elemento psicologico del reato, poiché il sanitario veniva messo di fronte a circostanze indifferibili ed urgenti che richiedevano la sua attivazione”.
Infondato è, infine, il primo motivo di ricorso perché correttamente e, in linea con l’inequivoco contenuto della contestazione, i giudici di merito hanno ritenuto configurabile l’ipotesi di cui all’art. 328 c.p., comma 1, avendo accertato l’indebito rifiuto della visita che il dott. F., senza ritardo, avrebbe dovuto compiere.
Del tutto privo di fondamento è l’assunto secondo il quale la configurabilità del reato in parola ricorre solo con riguardo all’attività del medico di guardia che ometta di recarsi a visitare il paziente presso il proprio domicilio non già all’attività del sanitario che presti la propria attività di medico di guardia presso una struttura ospedaliera poiché il degente è assistito da personale infermieristico dedito a monitorarne le condizioni fisiche e i parametri vitali e che, in tal caso, la valutazione del sanitario si fonda su dati clinici e strumentali assai più fondanti di quelli in possesso del medico di guardia contattato direttamente dal paziente.
“Secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, il reato di rifiuto di atti di ufficio è un reato di pericolo, onde la violazione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice al corretto svolgimento della funzione pubblica ricorre ogniqualvolta venga denegato un atto non ritardabile alla luce delle esigenze prese in considerazione e protette dall’ordinamento, prescindendosi dal concreto esito della omissione (ex plurimis, Sez. 6, n. 3599 del 23/3/1997, ******, Rv. 207545) e finanche dalla circostanza che il paziente non abbia corso alcun pericolo concreto per effetto della condotta omissiva (Sez. 6, n. 14979 del 27/11/2012, dep. 2013, M., Rv. 254863)”.
“L’elemento oggettivo è integrato dal rifiuto che si verifica non solo a fronte di una richiesta o di un ordine, ma anche quando sussista un’urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell’atto in modo tale che l’inerzia del pubblico ufficiale assuma la valenza di rifiuto dell’atto medesimo, e non è integrato solo nell’ipotesi in cui l’atto, non rivesta ex se la indifferibilita’ ed urgenza”.
Nella fattispecie in esame i giudici territoriali, in sintonia con gli enunciati principi hanno correttamente esaminato e valutato le emergenze processuali alla stregua dei rilievi e delle censure formulate nell’atto di appello e sono pervenuti alla conferma del giudizio di colpevolezza con puntuale e adeguato apparato argomentativo, ritenendo anzitutto estranea al giudizio sulla condotta dell’imputato la circostanza che il paziente fosse poi deceduto e valorizzando le condizioni di urgenza ed indifferibilità dell’atto sanitario richiesto dal personale infermieristico, in una situazione di oggettivo rischio per il paziente, ormai in stato di letargia: in questi casi il medico ha comunque l’obbligo di recarsi immediatamente a visitare il paziente al fine di valutare direttamente la situazione, soprattutto se a richiedere il suo intervento sono soggetti qualificati come e’ accaduto nella specie, in grado cioe’ di valutare la effettiva necessita’ della presenza del medico.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro millecinquecento in favore della cassa della ammende.
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