Sempre più infermieri si dimettono dal pubblico: è allarme rosso


L’infermieristica italiana è in profonda crisi. E tra carenze di personale sempre più gravi e spesso sottostimate (VEDI Carenza di infermieri? “Il 25% è in ufficio”) che causano turni di lavoro logoranti, sfruttamento istituzionalizzato, aggressioni all’ordine del giorno e stipendi vergognosi, sempre più professionisti stanno presentando le proprie dimissioni dall’azienda pubblica (e non solo) per avere più autonomia. E magari una vita e uno stipendio diversi.

Addirittura, c’è chi saluta definitivamente la professione per andare a svolgere lavori lontani anni luce da quelli per cui è necessaria una preparazione universitaria (VEDI “Gli infermieri lasciano gli ospedali per fare gli operai, i commessi o i badanti”). D’altronde, lo stipendio dell’infermiere è così basso che di “laureato” ha decisamente poco o nulla.

Comunque… Sul caldo tema delle dimissioni, il presidente Nazionale del sindacato Nursing Up Antonio De Palma ha pubblicato un nuovo comunicato, per scatenare qualche riflessione nella mente dei nostri governanti che si apprestano ad accogliere infermieri da paesi lontani (VEDI Il ministro Schillaci “dimentica” di nuovo gli infermieri. D’altronde, arrivano gli indiani…) e a produrre pseudo infermieri a basso prezzo (VEDI Mancano gli infermieri? Schillaci dà il via libera al super OSS!). Lo riportiamo qui integralmente.


«Sempre più infermieri, soprattutto al Nord, decidono di lasciare i reparti nevralgici della sanità pubblica, in particolare i pronto soccorsi, e rassegnano le dimissioni dalle aziende sanitarie per decidere di lavorare in autonomia. Decidono di aprire partita iva oppure aderiscono alla realtà, da sempre esistente, delle cooperative. Le ragioni sono molteplici e sono naturalmente legate ai disagi, alle lacune, ai paradossi di un sistema sanitario sempre meno “a misura di professionista”.

Attraverso i nostri rappresentanti territoriali, che vivono ogni giorno, da vicino, il contesto degli operatori sanitari, e che nella maggior parte dei casi comunicano direttamente con gli ordini locali, non possiamo che confermare la delicata situazione che abbiamo già più volte denunciato in passato, offrendo alla collettività nuovi preoccupanti numeri che corroborano l’allarme legato alla fuga di infermieri dalla sanità pubblica.

In particolare le situazioni meno felici si registrano in Piemonte, dove addirittura ci giunge la notizia di almeno una lettera al giorno di dimissioni volontarie dalle aziende sanitarie dislocate nella Regione. Seguono Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, senza dimenticare il Veneto e l’Emilia-Romagna. In particolare in Friuli le cifre sembrano già ad un punto di non ritorno: 1530 dimissioni di operatori sanitari negli ultimi 3 anni , in una regione che certo non è tra le più grandi, non possono essere un dato da sottovalutare.


Proviamo allora a chiederci, facciamolo adesso, quali sono le ragioni che spingono i nostri professionisti a cercare di svincolarsi dalle aziende sanitarie di appartenenza, magari dopo aver faticato tanto per vincere un concorso e ottenere un’assunzione a tempo indeterminato. La verità è sotto gli occhi di tutti: l’infermiere medio non ce la fa più a rinunciare alla sua vita privata, non ce la fa più a sottrarre tempo alla famiglia.

Disorganizzazione, turni massacranti, l’essere spesso addirittura costretti ad accumulare ferie su ferie a causa della carenza di colleghi, senza poter esercitare il legittimo diritto ai riposi periodici, fondamentale per un indispensabile recupero psicofisico. La triste realtà delle ferie negate non è certo una novità ma rappresenta l’apice di un tortuoso percorso che ci ha condotti, tutti, in un vicolo cieco. Per non parlare poi di quando torni a casa con un ecchimosi sul volto, preso addirittura a pugni da un paziente perché, al peggio non c’è mai fine, vieni anche ritenuto responsabile delle carenze e dei disagi che si riflettono sulla collettività.

E se poi consideriamo che continuiamo a essere tra i professionisti meno pagati d’Europa, il quadro assume contorni davvero foschi. Ci si chiede, chi non lo farebbe, se ne vale davvero la pena, ci si domanda per chi e per cosa conviene continuare a sopportare situazioni che diventano a lungo andare insostenibili. Ed è soprattutto il personale dei Pronto Soccorso, della chirurgia e della rianimazione, dove la pressione e lo stress sono più forti, a mollare e ad andare nelle cooperative o a scegliere la strada della partita iva, prediligendo, nel primo caso, una modalità lavorativa che può essere meno stressante e più remunerativa.


Ironia della sorte, ecco i casi degli operatori sanitari richiamati dalle medesime aziende sanitarie con contratto a gettone, con le cooperative che vengono pagate dagli ospedali e dove i professionisti arrivano a percepire anche il doppio dello stipendio che prendevano quando erano dipendenti pubblici, ma con un rapporto più libero e meno stressante, dove non essendo dipendente, l’interessato non può essere certo obbligato ai doppi turni come nel rapporto di dipendenza con l’azienda sanitaria, abbandonando famiglia ed affetti. Certo, quanto percepisce un medico libero professionista, assunto a gettone con compensi fino a 120 euro l’ora, non è nemmeno lontanamente paragonabile al compenso di un infermiere dipendente di una cooperativa.

Ci sono poi gli autonomi, coloro che come detto decidono di aprire partita iva: ebbene fummo proprio noi del Nursing Up a rivelare che un operatore sanitario chiamato a fatturare le proprie prestazioni può anche arrivare a guadagni netti superiori a 50mila euro all’anno, ma con tutti gli handicap legati ad un profilo previdenziale praticamente inesistente.

La professione perde sempre più di appeal, questo è chiaro: e chi decide di restare nel mondo della sanità perché ci sono anche coloro che optano per un cambiamento radicale di vita, non è certo più disposto a rinunciare alla propria vita privata, con il rischio anche concreto di subire le conseguenze fisiche e psicologiche dello stress, sino ad arrivare alla ben nota sindrome di burnout. Per non parlare delle famiglie che si disgregano, di coniugi  che diventano tra loro estranei, che non possono incontrarsi, trascorrere il tempo necessario a corroborare e mantenere le loro relazioni , sino alla separazione e al divorzio.


In Italia il 36% degli infermieri dichiara di voler lasciare il luogo di lavoro entro 12 mesi; di questi il 33% dichiara di voler lasciare la professione, dato che corrisponde a circa l’11% del campione generale. Sono dati emersi, come noto, dallo studio RN4CAST che riguardano una tendenza confermata anche da studi successivi effettuati in altri paesi del mondo, compresi gli Stati Uniti.

Insomma, pare evidente che, viste le proposte poco edificanti che la sanità pubblica continua a riservare agli infermieri, tra avvisi di assunzione sempre più deserti, e corsi di laurea per infermieri che nell’anno accademico 2022-2023 denunciano quasi il 10% di giovani candidati in meno rispetto all’anno precedente, la responsabilità non è certo di quei professionisti che decidono, loro malgrado, di “invertire la rotta”, ma di un sistema profondamente malato, che consente tutto questo e continua a compiere l’infelice e triste scelta di non pagare adeguatamente i suoi dipendenti, spingendoli a licenziarsi, salvo poi essere costretto a richiamarli, questa volta come libero professionisti, pagandoli molto di più di quanto non gli desse precedentemente. È davvero questo il modo di ricostruire il nostro sistema sanitario?».

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Alessio Biondino