Una recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. III, Sentenza n. 1 del 3 gennaio 2022) ha condannato definitivamente un’infermiera per omicidio colposo.
Omicidio colposo
Come spiegato da Responsabilità Civile la donna, in servizio presso una terapia intensiva non specificata, avrebbe consapevolmente disattivato gli allarmi sonori dei macchinari connessi ad un paziente.
Ma non solo: non li avrebbe riattivati nemmeno al termine del suo turno di lavoro, senza informare i colleghi del turno seguente. Fatto sta che il paziente, ricoverato per gravi problemi cardiaci e destinato a una complicata operazione, è stato colto da una crisi cardiaca.
Ritardo fatale nei soccorsi
E, purtroppo, a causa di questo ‘silenzio indotto’ dei sistemi automatici di rilevamento di eventuali criticità, si è verificato un ritardo fatale nei soccorsi: il paziente è deceduto. Pertanto, secondo gli Ermellini non vi sono dubbi circa la responsabilità penale attribuibile alla professionista.
L’infermiera, condannata in primo grado e in Appello (a 12 mesi di reclusione), aveva presentato ricorso in Cassazione contestando ogni addebito e provando a scaricare ogni responsabilità sul medico di reparto (cardiochirurgo) che aveva espiantato al paziente un defibrillatore automatico; a quanto pare senza comunicarlo.
Colpa del medico? No
Secondo la sanitaria egli “non solo non ha comunicato a tutti gli altri addetti alla Terapia intensiva quanto da lui fatto, ma neppure si è preoccupato di verificare la funzionalità del sistema di allarme” ha spiegato. Quindi, secondo la donna e i suoi legali, “un tempestivo intervento dei sanitari, ove avvisati per tempo avrebbe potuto salvare il paziente”.
Entrando più nel dettagli, l’infermiera ha voluto sottolineare che nelle precedenti sentenze non si era tenuto conto di “quale sarebbe potuto essere il tempo utile per intervenire fattivamente a salvaguardia della vita del paziente” e che “la necessità della verifica di tale lasso di tempo tanto più sarebbe stata evidente ove si consideri che, non essendo stato informato tutto il personale dell’avvenuto espianto del defibrillatore dal corpo del paziente, non vi era in atto nel personale una condizione di preallarme, posto che si riteneva che alle eventuali emergenze si sarebbe fatto fronte con il dispositivo che il paziente portava addosso”.
I giudici non hanno avuto dubbi
Ma i giudici della Suprema Corte non hanno avuto dubbi: è stata in primis la condotta della professionista, negligente e colposa, a cagionare la morte del paziente e non la condotta del medico: “La assoluta irritualità del comportamento tenuto dell’infermiera, la quale, per ragioni da lei stessa ascritte alla esigenza di scongiurare, durante la notte, quello che ella aveva definito inquinamento acustico, aveva provveduto, unitamente all’altro collega svolgente il servizio notturno di assistenza infermieristica, a silenziare non solo gli stessi campanelli dell’interfono che consentiva ai pazienti di collegarsi con gli infermieri di guardia, tanto che essi, per chiedere aiuto, dovevano chiamare ad alta voce, ma anche il sistema di allarme acustico e visivo – cosiddetto allarme rosso – volto a segnalare, onde immediatamente allertare il personale sanitario, la presenza di fenomeni patologici, ivi compresi quelli di aritmia cardiaca, riferibili ai singoli soggetti occupanti le postazioni di terapia intensiva”.
Non è concepibile
Tradotto in parole poverissime: non è concepibile che in una terapia intensiva un paziente non sia monitorizzato a dovere. Non c’è “inquinamento acustico” che tenga: gli allarmi delle macchine e dei monitor sono concepiti per essere uditi e decifrati di continuo dal personale sanitario.
Disattivandoli, il paziente corre sempre e comunque dei rischi, in quanto in caso di emergenza potrebbe perdersi del tempo prezioso.
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