Uno studio condotto dall’Università di Genova, in collaborazione con la Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche, ha rivelato preoccupanti livelli di stress tra gli infermieri italiani. Il 59% di loro si dichiara stressato a causa del lavoro, con il 40,2% che riporta un alto grado di burnout clinico ed esaurimento emotivo. La situazione è aggravata dall’insoddisfazione professionale, che coinvolge il 38,3% degli oltre 165.000 infermieri ospedalieri, di cui il 45,2% è pronto a lasciare il lavoro entro un anno (VEDI).
Le principali cause di insoddisfazione riguardano lo stipendio inadeguato (77,9%) e la mancanza di prospettive di carriera (65,2%). La crisi finanziaria del 2008 e la pandemia Covid-19 hanno influito negativamente sulla qualità degli ambienti di lavoro, impattando il benessere degli infermieri e la soddisfazione dei pazienti.
L’indagine ha coinvolto 3.209 infermieri in 38 presidi ospedalieri, evidenziando che solo il 3,2% ritiene eccellente la sicurezza del paziente nel proprio ospedale. La carenza di personale è il motivo principale delle cure mancate, con ogni infermiere che assiste mediamente 8,1 pazienti, e solo il 3,4% giudica l’ambiente di lavoro come non frenetico e caotico.
La pandemia ha intensificato la situazione, con il 46,4% degli intervistati che riporta elevati livelli di stress dovuti all’esposizione a pazienti Covid-19. La carenza di personale infermieristico contribuisce alla mancanza di pianificazione o aggiornamento dei piani assistenziali, compromettendo la qualità dell’assistenza.
Questo è stato il commento della presidente della Federazione degli Ordini delle Professioni Infermieristiche, Barbara Mangiacavalli: «È uno studio dirompente, perché mette nero su bianco, con la forza dei numeri e delle analisi statistiche, quelle percezioni che la Federazione da molti anni sta facendo pervenire nelle opportune sedi istituzionali.
E spiega anche le ragioni per cui la modifica al sistema pensionistico prevista dal Governo nella legge di Bilancio è apprezzabile, ma è rischiosa in relazione all’obiettivo del riconoscimento della professione infermieristica come lavoro usurante. Proprio per la storica carenza di organici, gli infermieri si trovano quotidianamente a dover andare oltre i normali di turni di lavoro. Certamente non è la stessa situazione riscontrabile tra i dipendenti amministrativi, scolastici o informatici. Quello che chiediamo è che vengano adottate soluzioni strutturali che, ovviamente, non ci portano alla soluzione domani, ma che possono costruire, nel tempo, nell’arco temporale di 5-8 anni, una professione infermieristica 2.0 capace di invertire la tendenza.
Lo studio chiarisce bene anche perché ogni anno circa 20mila giovani scelgono la laurea in Infermieristica, ma durante i primi 3 anni di formazione abbiamo già una perdita importante di candidati. Evidentemente gli studenti iniziano a frequentare gli ambienti di tirocinio e si rendono conto di una serie di dinamiche che sono quelle che poi sono state messe in luce dallo studio.
Se il 40% dopo di chi presta servizio in ospedale dopo un anno di lavoro manifesta l’intenzione di lasciarlo, a fonte di alternative, ci rendiamo conto che bisogna agire su elementi profondi: la poca attrattività legata agli aspetti stipendiali, di crescita, di sviluppo di carriera, di avanzamento professionale, piuttosto che i modelli organizzativi che rendono l’attività caotica, esasperante, che genera burnout, insicurezza nelle prestazioni perché ci si rende conto di lavorare in condizioni non sicure e adeguate.
Non dimentichiamo che l’Italia è il secondo Paese più vecchio al mondo, dopo il Giappone: la prospettiva è di avere di fronte decenni di lunghe stagioni assistenziali che non sono gestibili in ospedale, ma sul territorio, a domicilio, con infermieri specializzati».
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