In una accorata lettera contro “il sistema” che sta di fatto distruggendo l’Infermieristica italiana, una ex collega ha raccontato il suo percorso e la sua recente fuga da una professione sottovalutata, sfruttata, mal pagata e molto spesso vittima sacrificale della nostra sanità. È stata pubblicata due giorni fa (VEDI GDB) e ve la riproponiamo qui per intero, perché fa decisamente riflettere.
«Sono una ex infermiera che ha lavorato per ben undici anni al servizio degli Spedali Civili di Brescia. In particolare ho esercitato la mia professione per dieci anni presso il Pronto Soccorso Pediatrico e quasi un anno all’Unità operativa di Neonatologia.
Sono originaria della provincia di Salerno, ma nel 2011 ho vinto un concorso pubblico presso il Civile e, con orgoglio e tanta voglia di crescere sia personalmente che professionalmente, sono stata adottata da questa «grande famiglia» quale era il Civile ai tempi della mia assunzione.
Da «emigrata», ho iniziato man mano a sentirmi parte integrante della comunità bresciana, fino a piantare definitivamente qui le mie radici mettendo su quella che poi è diventata ed è la mia famiglia. Con l’arrivo della mia bimba, mi sono resa conto di non essere stata più in grado a gestire i ritmi familiari, soprattutto perché anche mio marito è un professionista sanitario turnista. Da lì l’esigenza di una mamma di trovare “più” tempo libero per la propria bimba.
Tutti pensano che il personale sanitario sia sostenuto dallo Stato. Si pensa che non paghiamo prestazioni sanitarie per noi e per la nostra famiglia. Si crede che tanto possiamo chiedere ferie quando vogliamo, che riposiamo e che siamo personale pubblico privilegiato. Non è così! Paghiamo le prestazioni sanitarie come tutti, non abbiamo “corsie” di preferenza quando dobbiamo prenotare qualche esame per noi o per la nostra famiglia, ma soprattutto riposiamo molto poco. Saltiamo le ferie per le malattie di colleghi o per situazioni di emergenza/urgenza. Non sempre riusciamo a programmare vacanze estive (dato che ci vengono confermate a fine maggio) e spesso saltiamo i giorni di riposo.
Si tratta di un sistema che non tutela gli infermieri, né il resto del personale sanitario, e che non sostiene le famiglie dei professionisti sanitari, ai quali viene chiesto sempre di più ormai senza nemmeno dare alcuna forma di riconoscenza.
Un tempo la popolazione si affidava, si fidava e ci rispettava. Adesso nemmeno più i cittadini si affidano a noi, talvolta si comportano da «tuttologi» e spesso si rivolgono con supponenza e talvolta con violenza.
Gli infermieri non sono automi, non sono “arruolati” nell’esercito, soprattutto non sono “missionari” come si pretenderebbe da loro. Tutti hanno diritto a riposare, a stare con i propri cari, avere i giorni di ferie, trascorrere il tempo giocando con i figli… Diventa sempre più difficile.
Ormai ai corsi di laurea di Infermieristica sempre meno iscritti. Pochi hanno la volontà di intraprendere un lavoro fatto di tante responsabilità e doveri con sempre meno diritti e riposo o tempo libero per una passeggiata, un aperitivo in compagnia o un momento in palestra.
La mia bimba ha trascorso il Natale senza né la mamma, né il papà. In alcuni giorni io e mio marito ce la siamo “passata” come un pacco, nel parcheggio dell’Ospedale alle sette del mattino, io smontante e lui montante, e se arrivavamo in ritardo di cinque minuti i colleghi sbuffavano.
Dov’è il sostegno alla famiglia dei professionisti sanitari? Dov’è? I sindacati dicono che due coniugi “possono” chiedere la turnazione alternata ai propri dirigenti, peccato che gli Uffici del Personale non sono nemmeno a conoscenza di tale diritto.
Ho trascorso gli ultimi tre anni della mia professione a fare lotte per i miei diritti di mamma e di professionista. E alla fine? Sono io che ho dovuto mollare. Ho fatto prima a cambiare lavoro. Nel 2022 ho fatto un concorso come Assistente Amministrativo presso un altro ente pubblico e l’ho vinto.
Ho studiato nuove materie, mi sono rimessa in gioco, ho mollato il lavoro per il quale ho fatto tanti sacrifici, per il quale ho rinunciato alle mie origini, per poter riuscire a gestire la mia famiglia. Per poter essere una mamma presente per la mia bimba; per poter essere una persona libera, con del tempo libero da trascorrere leggendo un libro o facendo una passeggiata con mio marito, senza dover avere l’ansia di essere chiamata a casa in un giorno di riposo o ferie per coprire una malattia. E alla fine ringrazio mia figlia che mi ha portata a dover cambiare la mia prospettiva di vita: una vita, devo dire, migliore.
A volte si ha paura del cambiamento e ci si adagia nella situazione in cui ci si trova anche se completamente alienati. La cosa peggiore è che nessuno fa nulla per cambiare questo sistema. Né lo Stato, né il personale, né le istituzioni. Tutti a chiedersi il perché non si vuole più intraprendere questa professione, ma nessuno fa nulla. Il mio lavoro mi manca, perché l’ho scelto con amore e devozione. Ma con il tempo ho capito che la mia famiglia conta molto di più, che il riposo, che il tempo, sono oro. Il tempo perso non torna indietro. La cosa che più per me è deludente è stato il trattamento ricevuto dall’Azienda. Ho trascorso dieci anni presso il Civile. Ho donato tempo extra e ho investito tutte le mie forze. Ho lavorato con professionalità e passione. E alla fine? Nemmeno un «Grazie».
La cosa peggiore è che a distanza di quasi due anni, nonostante vari solleciti, pec, email, telefonate agli uffici, l’azienda non mi ha ancora retribuito venti giorni di ferie non fruite. Ferie mai fatte per questioni di «urgenza/emergenza» di reparto (come veniva detto dai superiori), per carenza di personale o colleghi malati.
Scrivo dunque per due motivi.
Il primo perché spero che il direttore generale dell’azienda o il direttore del personale leggano la mia lettera anche solo per rendersi conto della situazione dinanzi alla quale parte del personale viene messo. Vorrei dir loro che a volte basta un gesto di riconoscimento, che sia una mail, che sia una lettera ai propri dipendenti, collaboratori, pensionati che han fatto e fanno sacrifici per lavorare con passione lottando contro la frustrazione che il sistema porta a provare; se infermieri, medici, personale di supporto, nonostante la pesante turnazione, non riposa, non fa ferie, non riceve riconoscimento, come fa a lavorare serenamente?
Come fa a trasmettere serenità, tranquillità ai pazienti? L’Ospedale ormai viene gestito come un’azienda: si pensa solo alle entrate e alle uscite! L’ospedale deve essere il luogo che “si prende cura” dell’ammalato. Il paziente non è un “cliente”. Il paziente necessita di cura e merita di venire in ospedale e trovare personale cordiale, sereno, concentrato (riposato).
In secondo luogo invece vorrei che i lettori, la popolazione, tutti i miei colleghi (alcuni anche omertosi) facciano qualcosa affinché il sistema cambi. Vorrei che “urlino”, che denuncino. Bisogna lottare per i propri diritti. Sono pronta a metterci la faccia, sperando che questo possa portare un minimo cambiamento.
Rosa Cocchia».
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